Il ministro della Giustizia, l'altro giorno, ha detto delle cose importanti, a conclusione del congresso dell'avvocatura. Magari, dette vent'anni fa potevano anche sembrare frasi banali. Ma oggi sostenere che la "presunzione di innocenza" è un caposaldo della nostra Costituzione e dunque deve essere considerata da tutti un principio intoccabile, beh è quasi una affermazione rivoluzionaria...E per un ministro, e per un esponente di alto livello della politica italiana, occorre una buona dose di coraggio per ribadirla ad alta voce e anche con una certa forza polemica.Orlando in questo modo si è tirato addosso quantomeno la non-simpatia dell'Anm e del gotha del giornalismo italiano (cioè del giornalismo giudiziario, che oggi è diventato il punto più alto della piramide gerarchica nel giornalismo italiano). Anche perché Orlando, dopo aver proclamato la presunzione di innocenza, ha anche rivendicato il diritto da parte della politica di criticare l'Anm e di non sottostare ai suoi diktat, ha confermato la volontà di riformare il processo (nonostante gli alt ripetutamente lanciati da Davigo) e ha speso parole molto critiche verso la gogna mediatica, cioè verso i giornali.Quasi quasi sembrava un sovversivo.Adesso, evidentemente, bisognerà vedere come andrà a finire la battaglia sulla riforma del processo. Non sarà semplice farla passare, se è vero che nessuno dei governi dell'ultimo ventennio è mai riuscito a mettere mano a nessuna riforma della giustizia. Però è evidente che qualcosa si sta muovendo, e che il ministro della Giustizia ha deciso di spendere il suo peso in una battaglia, che ormai è apertissima, tra due modi di vedere la "modernità", l'"etica", "l'organizzazione della civiltà", che sono molto distanti tra loro. C'è una parte, ancora largamente maggioritaria, dell'intellettualità e del mondo dei mass media (e dell'opinione pubblica) che ritiene lo Stato di Diritto un alleato della "colpa" e dunque un nemico della giustizia, e dell'equità, e dello sviluppo. Qualcosa da tenere sotto controllo. E si pone su una posizione di contrasto nettissimo (seppure mai dichiarato) con i principi essenziali affermati nella prima parte della nostra Costituzione. Su questo fronte ci sono forze potenti: pezzi vasti della magistratura, giornali, Tv, web, anche settori non secondari del potere economico.Dall'altra parte c'è un mondo ancora piuttosto esile - al quale fa riferimento il ministro Orlando - il quale ritiene che la modernità si basi sui diritti e non sulle pene. Sulla libertà e non sulla repressione. In questo "piccolo mondo modenro", un ruolo fondamentale spetta all'avvocatura. E se l'avvocatura non getta la sua forza in questa battaglia, è una battaglia persa.Per questa ragione il congresso dell'avvocatura, che si è svolto alla fine della settimana scorsa a Rimini, è stato molto importante. Perché ha segnato una svolta - come il Dubbio ha scritto più volte nei giorni scorsi - e ha definito un nuovo modello di avvocatura, fondato sull'"unità di intenti". Uso questa formula, e non la semplice parola "unità", perché la parola "unità" ha un significato "totalizzante" che certo non si adatta alla complessità dell'avvocatura italiana. Non è un copro unico, non è un unico pensiero, non ha una sola sensibilità: l'avvocatura è per sua stessa natura molto pluralista e molto libera, e non accetta briglie né fortini. Il congresso di Rimini non si è posto l'obiettivo di ridurre il pluralismo ma quello di realizzare l'unità su alcuni grandi principi e alcune grandi battaglie. E su questo terreno ha compiuto un notevole passo avanti. Anche definendo alcuni punti sui quali condurre le lotte che interessano la categoria degli avvocati, il suo assestamento e il suo sviluppo. Per citarne alcune, quella per l'equo compenso, per i consigli giudiziari, per i diritti delle avvocate in gravidanza. Che possono sembrare obiettivi corporativi ma sono esattamente il contrario: si collocano dentro una battaglia - che è esattamente il contrario del corporativismo - e cioè quella per chiedere che siano i principi e i diritti - e non la spontaneità e la furia libera del mercato - a regolare i rapporti tra la professione dell'avvocato e la società. La professione dell'avvocato ha una funzione sociale, decisiva per la definizione di una civiltà moderna, che non può rispondere alle incertezze e alla satrapia del mercato. Questo non vuol dire essere contro alla libertà del mercato - dentro l'avvocatura vivono a buon diritto le più diverse posizioni politiche: da quelle liberiste a quelle cristianosociali, a quelle socialiste, a quelle keynesiane - vuol dire immaginare una società - e uno Stato - che pone al vertice il diritto e non gli interessi delle categorie o della finanza. Il mercato può regolare l'economia: non può regolare o pretendere la limitazione dei diritti, o subordinarli alle variabili dell'economia.Si spiega così la saldatura tra le battaglie per l'equo compenso, o per i diritti delle avvocate in gravidanza, con le battaglie per cosiddetta "adr" (la negoziazione assistita e le mediazioni che possono sostituire in molti casi i processi, esaltando il ruolo sociale e civile dell'avvocato), con la battaglia garantista e di difesa della Costituzione.Il congresso di Rimini, che è stato il risultato anche di un lavoro molto impegnativo soprattutto del Cnf e dell'"Agorà" (l'organismo che riunisce i rappresentanti di tutti gli ordini) è il congresso - possiamo dire - di una avvocatura istituzionale, che rivendica il suo ruolo, che difende il sistema ordinistico, che afferma il valore sociale di questo sistema, e che restituisce al dibattito pubblico una forza più convinta di se stessa, e quindi probabilmente in grado di mettere un peso più forte nel dibattito pubblico. L'impressione è che anche il ministro Orlando abbia avvertito questa novità. E si sia sentito più libero nelle sue posizioni. Perché una cosa è affrontare una battaglia, o una discussione, quando il partito dei Pm è l'unico interlocutore, e una cosa ben diversa è sapere che c'è in campo un'altra forza, e cioè l'avvocatura, in grado di riequilibrare la competizione.