Le rottamazioni si fanno con le ruspe. Forse Matteo Renzi non ha mai pensato all'analogia con il metodo di Matteo Salvini, né al fatto che i modi spicci in genere scassano tutto, fatto sta che stavolta ci va di mezzo la riforma del processo penale. Ora a un passo dal finire in archivio. «Davigo è una persona assennata, dice che il disegno di legge sulla giustizia è inutile e dannoso. Ebbene», è l'incredibile retromarcia del premier, «prima di mettere la fiducia su atti che noi vorremmo andassero nella direzione di aiutare i magistrati, con i magistrati che dicono che sono dannosi, ci penso dieci volte». Non solo: se il presidente dell'Anm, nota Renzi, esprime giudizi tanto negativi «avrà le sue motivazioni». E in pochi minuti ecco la frana. Niente esame del provvedimento: la richiesta di archiviazione pronunciata da Matteo in diretta su Rtl 102,5 innesca la resa del Senato. Il dem Francesco Russo presenta una richiesta di invertire l'ordine del giorno: «Prima il cinema». Palazzo Madama dice che sì, meglio andarsi a vedere un film. La giustizia può attendere.In poche ore viene preso a botte un lavoro immane, che andava avanti da almeno due anni. A pochi minuti dalla mezzanotte di martedì in realtà il presidente del Consiglio ci ha già messo il carico da novanta: esce dal Consiglio dei ministri, entra in conferenza stampa e annuncia che sì, «la riunione mi ha autorizzato ove necessario a porre la fiducia sul processo penale, ma non sono convinto di metterla». Tutto chiaro. Il riferimento all'Anm viene anticipato nel confronto con Angelino Alfano, che in Consiglio invoca la blindatura del testo più del collega Andrea Orlando, ministro della Giustizia. Renzi cede nella sede formale, ma si impone sul fronte che controlla meglio di tutti: la comunicazione. «Ho visto autorevoli esponenti della magistratura, e l'Associazione nazionale magistrati, scagliarsi contro questo testo che secondo me è alto e nobile: nel mio spirito di collaborazione e dialogo penso che forse non valga la pena mettere la fiducia su un testo così contestato», è l'altro passaggio chiave del discorso notturno di Renzi.In mattinata, mentre il presidente del Consiglio si prepara al dietrofront via radio, rimbalzano le parole affidate da Orlando al Corriere della Sera. Quando Giovanni Bianconi gli chiede se "Renzi sia disposto a far morire la sua riforma, pur di non mettere in gioco il destino del governo alla vigilia del referendum", il ministro risponde «no, non credo». E aggiunge: «Non sono disposto nemmeno io». Il guardsagilli pensa che la legge su prescrizione, intercettazioni e carcere vada approvata, con o senza fiducia. Spiega ancora al Corriere di essere «d'accordo a verificare le condizioni per il percorso ordinario» ma «fatta salva la tenuta sui passaggi essenziali». È da giorni la tesi di Via Arenula: proprio una fiducia sull'intero articolato no, ma una blindatura ad hoc sui punti più a rischio, prescrizione i primis, andrebbe valutata. C'è un altro passaggio chiave, nell'intervista: «Sulla fiducia non si deve convincere nessuno, si deve valutare la strada migliore per approvare una riforma che considero molto importante» e che attua alcuni dei dodici punti sulla giustizia». Ad annunciarli, il 30 giugno 2014, furono appunto Orlando e Renzi insieme.Di sicuro il ministro conosce da tempo i rischi nascosti dalla raffica di voti segreti in arrivo sulla riforma del processo. Nel pomeriggio si colgono a Palazzo Madama tentativi di rassicurazione: «La legge sul cinema dovrebbe essere licenziata entro metà settimana prossima, poi la riforma del processo la riprendiamo», assicura un autorevole senatore del Pd, «il problema era che in questa settimana avevamo troppi colleghi in missione... ». Versione diplomatica per spiegare che dopo le parole di Renzi c'è bisogno di guardarsi un attimo negli occhi.Dietro lo spauracchio dell'Anm evocato da Renzi c'è una ragione ostativa più semplice: evitare che i cinquestelle possano dire in piena campagna referendaria che con la riforma del processo il governo fa un regalo a mafiosi e corrotti. In realtà Mario Giarrusso lo dice da giorni. Dal punto di vista di Renzi l'ideale sarebbe riuscire a tenere il testo sulla giustizia lontano da Palazzo Madama fino al 4 dicembre, data della consultazione. Dire «non vale la pena di mettersi contro Davigo» è una dichiarazione di impotenza. Verso il mainstream giustizialista, certo, più che di fronte all'Associazione magistrati, chiamata in causa per comodità. È vero che Davigo già alimenta a propria volta la campagna anti-governo: ha già convocato per sabato prossimo un comitato direttivo centrale straordinario dell'Anm allargato ai capi di tutti gli uffici d'Italia. Oggetto, appunto, «l'allarme per una riforma inutile e dannosa che non risolve la vera emergenza della giustizia: le carenze di organico». Nel comunicato i magistrati attesi da tutto lo Stivale sono elencati uno a uno con relativa città di provenienza. A dare un'idea di una forza numerica che, evidentemente, ha già dissuaso Palazzo Chigi.