Guardo Giovanni e mi chiedo: ma come fa? Da quasi 7 anni un procedimento penale gli tiene sequestrata la vita eppure ne parla col sorriso. Penso: è stato un servitore dello Stato, un militare dell'Arma, ha fiducia cieca nella giustizia. Però 6 anni sono tanti, uno stillicidio, iniziato con 40 giorni di carcere. Ascolto i suoi racconti e capisco che solo la fede aiuta a credere anche nel diritto. Almeno quando l'attesa di vedersi riconosciuti innocenti dura tanto da spezzarti il respiro.Giovanni Maria Jacobazzi è una delle più importanti firme di questo giornale, fino al 24 giugno 2011 è stato il comandante della polizia municipale di Parma. Quel giorno lo arrestano sulla base di accuse che a leggerle sembra di trovarsi davanti al caso del secolo: corruzione, tentata concussione, peculato, abuso d'ufficio. Ieri dopo sette anni, Giovanni per la prima volta parla in udienza davanti al giudice, ancora al primo grado del processo. E per la prima volta si scoprono le carte delle accuse a suo carico: e il gelo cala ancora più pesante. Perché a un orecchio appena addestrato si capisce che la consistenza degli addebiti è invisibile. È chiaro dall'esame del teste chiave, il generale della Guardia di Finanza Guido Geremia. Incalzato dalle domande di un difensore del calibro di Roberto Lassini, il generale ammette che i suoi uomini neppure verificarono se sui conti correnti risultava l'assegno con cui Giovanni aveva regolarmente pagato dei lavori edili segnalati dall'accusa come contropartita di una presunta corruttela. Nonostante si tratti dell'investigatore che aveva coordinato le indagini, al controesame viene pronunciata una quantità impressionante di "non ricordo".Emerge che secondo i capi d'imputazione Giovanni da capo dei vigili avrebbe indotto un presunto correo a una sovrafatturazione, ma che in realtà non poteva essere lui a stabilire l'importo della commessa. Al pm Lucia Russo, Geremia dichiara che le sue verifiche avrebbero accertato come l'indagato avesse annullato alcune multe a proprio carico nonostante l'auto privata in questione fosse sicuramente utilizzata al di fuori delle funzioni d'ufficio. Ma quando l'avvocato Lassini gli chiede se in quel periodo Giovanni fosse già intercettato, viene fuori che no, che il telefono sarebbe stato messo sotto controllo solo un anno dopo, e che dunque «non siamo in grado di dire dove fosse l'auto in questione al momento delle contravvenzioni».A proposito di intercettazioni, i telefoni del nostro giornalista sono stati sotto controllo per oltre dieci mesi ininterrotti, per l'astronomico costo di un milione di euro, già notificato in fattura all'imputato. Sette anni di vita, un milione di euro, un arresto in diretta e la perdita dell'incarico, per questo, per accuse che alla prova del dibattimento evaporano in un istante. In un clima non surreale, ma kafkiano. Perché nel retropalco di questa storia c'è una pm, Paola Dal Monte, che secondo la Procura di Ancona avrebbe dovuto astenersi dall'inchiesta, e che potrebbe essere chiamata addirittura a rispondere di abuso di ufficio. Il marito della inquirente, Alberto Cigliano, dirigente di polizia, è esaminato e bocciato da Giovanni a fine 2009, a un concorso per assumere un ruolo semidirigenziale all'interno dell'ufficio di Parma da lui guidato. Pochi giorni dopo Dal Monte indaga Giovanni. E, nel giugno successivo, Cigliano fa domanda per il posto ancora occupato da Jacobazzi. Il quale guarda caso due settimane dopo è in manette. Secondo i magistrati di Ancona, il fascicolo per abuso a carico della pm Dal Monte potrebbe riaprirsi, se le accuse a Jacobazzi si rivelassero inconsistenti. Lei ha lasciato l'indagine, ma i pm che le sono subentrati e lo stesso collegio giudicante sanno che se Giovanni esce assolto la loro collega rischia il processo. Uno stillicidio, appunto. Che solo la fede, non quella nella giustizia, può aiutarti a reggere.