Carceri senza sbarre né polizia, con la sicurezza garantita dai volontari e dai detenuti stessi. Utopia? No, è una realtà che da parecchi anni è ben radicata in Brasile. Parliamo del metodo innovativo portato avanti dalle Associazioni di protezione e assistenza ai condannati (Apac) ed è stato illustrato al Meeting di Rimini. L'Apac è un'associazione cattolica della società civile senza scopo di lucro che ha come obiettivo l'umanizzazione della pena privativa della libertà, che ha ideato in concreto una alternativa al carcere. In Brasile esistono 147 Apac. La media mondiale della recidiva dei condannati nel mondo è del 70% e in Brasile arriva fino all'80%, mentre con i "recuperandi" delle Apac la recidiva scende fino al 20%. Inoltre il costo di costruzione di un posto/persona è un terzo del costo del carcere comune e il costo di mantenimento è dimezzato.La metodologia utilizzata nelle Apac nasce 40 anni fa per opera di Mario Ottoboni, un avvocato visionario della Pastorale Carceraria a San Paolo. Oggi è riconosciuta dalla legge brasiliana e adottata dai Tribunali di 17 Stati. Tale metodologia è basata sul riconoscimento da parte del condannato di aver commesso un errore e sulla decisione di cambiare vita all'interno delle carceri Apac. Esse sono strutturate con l'obiettivo della risocializzazione reale dei condannati o "recuperandi", evitando che, dopo aver espiato la pena, ritornino a commettere crimini. Le Apac non sono solo un modello di recupero dei detenuti, ma anche un'alternativa reale di espiazione della pena, non ci sono né guardie né agenti penitenziari, i "recuperandi" hanno le chiavi della prigione e spesso sui muri si legge "l'uomo non è il suo errore". Tutto si basa sull'autodisciplina, sulla fiducia e sul rispetto. Le condizioni indispensabili per aprirne uno sono il coinvolgimento diretto della comunità locale e dei magistrati. Per entrarvi il detenuto deve essere condannato in via definitiva, deve aver fatto un periodo di detenzione nel carcere tradizionale (sempre più affollato in Brasile come in tanti altri Paesi), deve aver fatto richiesta di entrare in un'Apac. La vita in queste carceri senza carcerieri né armi, dove i colori predominanti sono il bianco e l'azzurro che richiama il cielo, è scandita da ferree regole: sveglia, preghiera, lavoro.Durante il Meeting di Rimini ha preso la parola Daniel Luiz da Silva, un ex detenuto che grazie all'esperienza dell'Apac ha cambiato vita. La sue era stata una vita segnata dall'odio per l'abbandono del padre, che aveva lasciato moglie e sei figli piccoli, consegnandoli di fatto a povertà ed emarginazione. Lui a dodici anni è già un piccolo boss perché ? parole sue - "la criminalità è stata l'unica mano tesa che mi ha accolto", e a sedici entra in una delle tante bande criminali che si sfidano nelle strade della sua città, seminando il terrore e rapinando banche e negozi, finché per una serie di vendette incrociate, per punizione gli uccidono il fratello maggiore. È la causa scatenante della sua violenza che gli procura una condanna a 37 anni di carcere. E ricorda: "In prigione ho vissuto l'inferno sulla terra, arrivando fino al punto di supplicare le guardie di uccidermi, pur di non continuare a vivere in quel modo". Ma un giorno, dopo aver incontrato Valeci Antonio Ferreira, intravede anche per sé una possibilità di cambiamento, e si mette a studiare in quell'inferno. Il giudice si accorge del suo cambiamento e gli permette di andare di andare in un' Apac. "Per la prima volta - prosegue nel racconto Daniel Luiz da Silva - ho ripensato alla mia storia non come una serie di fallimenti senza possibilità di ritorno. E ho capito, piano piano, che potevo anche perdonare mio padre per tutto il male che mi aveva fatto". Così Daniel è diventato un uomo nuovo, pronto per uscire dal carcere e raccontare la sua esperienza in tutto il mondo. E' possibile applicare in Italia questo modello? Tre anni fa è stato accolto e presentato a Bruxelles tramite la commissione europea per gli European Development Days. L'interessamento c'è. In Italia, l'associazione cattolica "papa Giovanni XXIII" che si occupa dei diritti dei detenuti ha incontrato i rappresentanti dell'Apac e ha espresso il parere che questa strada potrebbe essere percorribile anche da noi, magari coinvolgendo il terzo settore.