Che senso ha negli anni dieci del Duemila partire con una barca a vela da Trieste, affrontare milletrecentocinquanta chilometri di navigazione, approdare a Instanbul e poi puntare a Gerusalemme, in Terra Santa? Che senso ha - detto altrimenti - mettersi sulle tracce di Renè Chateaubriand che nel 1811 - esattamente due secoli fa - pubblicò gli Itinerari da Parigi a Gerusalemme raccontando quell'identico percorso? A una domanda così - così ispirata al pedestre senso comune intendo dire - ogni pagina del libro di Stenio Solinas Da Parigi a Gerusalemme, sulle tracce di Chateaubriand (Vallecchi, pp. 163, 15,50 euro) è di per sé una risposta. Non solo perché il diario di Solinas è un reportage strepitoso per scrittura e ritmo di narrazione, per acutezza di notazioni e freschezza di sguardo - e già questo basterebbe - ma perché il viaggio di Solinas, come quello del suo battistrada Chateaubriand, sono l'itinerario mentis nella nostra civiltà, sono un'immersione in presa diretta in quel passato che devi conoscere e soprattutto amare, come raccomandava Simone Weil, se vuoi che ci sia per te e i tuoi figli un futuro. E appunto il viaggio di Solinas con un amico skipper, fatto in barca con la lentezza, gli accidenti e l'impegno di chi vuol vedere coi suoi occhi, camminare con le proprie gambe, conoscere coi propri sensi è la sfida di chi non accetta verità per conto terzi, di chi concepisce la sua professione di giornalista e di scrittore come una cosa seria, fatta di studio, di vissuto, di lavoro sul campo. Un viaggio nel tempo oltre che nello spazio quello di Solinas; nel tempo di Chateaubriand e nel nostro (entrambe epoche di passaggio): varchi aperti tra un mondo che non c'è più e un altro che ancora non è nato. Interregni dove tutto è possibile ma dove respiri soprattutto l'atmosfera della decadenza, di una civiltà, d'una cultura e d'un epoca che hanno dato tutto quello che potevano in termini di costruzione politica, tensione culturale, visione del mondo e che ora nel loro lento chiudersi prefigurano qualcosa che non sai cosa sarà anche se lo specchio retrovisore della storia coi suoi corsi e ricorsi te lo può far intuire. E però come Chateubriand non trovava più l'eco della classicità di fronte ai templi dell'antica Grecia che aveva sognato eterna, così Solinas non trova negli stessi luoghi nemmeno più quello che lo scrittore francese aveva detto di vedere. Tace l'anima dei luoghi, sbandita dai motori e del tran tran d'un turismo sempre più organizzato e arrogante. Del resto tace anche la memoria di chi sia stato il grande Chateaubriand: «In che secolo è posizionato, mi chiede con tono professionale un'organizzatrice di eventi amica della moglie dello scrittore Baricco - racconta Solinas - e si capiva che la partita era persa in partenza». Chateaubriand nella memoria collettiva è infatti diventato una bistecca: «Fetta di carne di bue tenerissima - come recita Larousse gastronomique - dallo spessore di circa tre centimetri tagliata nel filetto». Del resto non c'è di che stupire, il Novecento in Italia è stato avaro con Chateaubriand: «Per avere un'edizione completa dei Memoires d'outre tombe - lamenta Solinas - il suo capolavoro assoluto, abbiamo dovuto aspettare la fine degli anni Novanta». Stendhal lo aveva profetizzato: «A partire dal 1913 non lo leggerà più nessuno». Nel giro di un secolo la modernità letteraria si illude di poter fare a meno della storia e della politica, in un'epoca peraltro che avrebbe visto «l'irruzione della storia e della politica nella coscienza e nell'anima delle masse oltre che degli intellettuali». Eppure è il suo essere uomo di confine, navigatore fra due rive che fa di Chateaubriand un unico irrinunciabile, la chiave di volta per capire un'epoca di passaggio come la sua e come la nostra. E' il primo dei romantici ma anche l'ultimo dei classici? «per nascita educazione gusti appartiene al mondo che è andato in pezzi, ma la sua fedeltà al passato non gli impedisce di capire che quel mondo è diventato marcio, da supremazia meritata si è fatto prima privilegio ingiusto, poi sterile vanità». Una dinamica quella della decadenza e dalla regressione delle élite che non s'è affatto esaurita ma che nel suo movimento a spirale oggi sta attraversando uno dei suoi tornanti più drammatici. Da un lato con la perdita della centralità geopolitica dell'Occidente e della sua cultura di derivazione europea, dall'altro con l'affacciarsi prepotente sulla scena della storia di mondi e civiltà altre che entrano in tensione con modelli che ritenevamo acquisiti e il cui destino ci appare ormai segnato. Una dialettica quella con le nuove tigri indiane e asiatiche rispetto alla quale il confronto tra cosiddetto mondo libero e patto di Varsavia, la tragedia europea del secondo Novecento, appare una bagattella tra cugini di civiltà separati da un piccolo muro ideologico. Stenio Solinas però non ha dovuto attendere il fatidico 11 settembre e poi le crisi finanziarie che a ripetizione spazzano ormai le due sponde dell'Atlantico per farsi persuaso della crisi dell'Occidente, per avere la prova di quanto la previsione di Francis Fukujama sulla fine della storia, formulata a metà degli anni Ottanta del Novecento, fosse un sintomo di stanchezza più che la convinta affermazione d'una vittoria definitiva, che la storia d'altra parte non concede mai. Ne fa testimonianza il percorso culturale e saggistico di Solinas ma anche il lavoro di inviato svolto con l'attenzione ai segni dei tempi e la capacità di cogliere le differenze di un mondo irriducibile all'omologazione. Scoperta che negli anni Novanta e Duemila dovranno fare con sbalordimento le teste d'uovo d'un estremo Occidente che della sua vantata ragione sembra aver solo conservato la deiezione di una logica binaria e schematica che induce a parlare di conflitto di civiltà quando il problema è proprio la civiltà divorata dalla tecnica. Con ciò dimenticando la lezione d'un altro discepolo di Chateaubriand quell'Andrè Malraux, anche lui posseduto dal demone dell'epica e della giovinezza, che aveva visto come il XXI secolo sarebbe stato il tempo dell'irrazionalità e della religione. Solinas non si mette dunque sulle tracce di Chateaubriand per fuggire dalla decadenza italiana, europea e occidentale con il suo corollario di opinionismo flaccido e di retroscenismo pettegolo, per uscirsene insomma dalle miserie della storia lungo una via impolitica ed estetica. No, lo fa per capire meglio quello che è avvenuto ieri e sta avvenendo oggi. Un viaggio a rebour alla ricerca della dimensione qualitativa del tempo, delle increspature e dei vortici che producono storia, deviano il percorso d'una cultura, sanciscono la fine d'una civiltà e la nascita di una nuova, ti svelano per affinità quello che può toccarti in sorte. Una forma d'indagine inattuale, lontana anni luce dalla logica dell'instant-book, dalla prassi dell'inviato d'assalto embedded con la kefiah d'ordinanza e il jet-lag permanente. Solinas sceglie la contemplazione, la riflessione, la lentezza. Lascia che le immagini e le idee arrivino insieme ad atmosfere che nel libro respiri come se fossi lì. «La modernità non contempla la durata, il nuovo ha senso nel fare continuamente tabula rasa. E' anche per questo che ormai fatichiamo a capire sempre di più che cosa siamo stati. La monumentalità delle rovine il feticismo che ne è derivato c'è la semplice nudità dei luoghi cui il turismo di massa da un'aura ancora più sinistra. Vediamo ma non capiamo più». Non che al tempo di Chateaubriand non fosse già in corso la mummificazione della memoria «ma quelle stesse rovine riviste con gli occhi della propria storia e della propria memoria consentono di dar loro un ordine, un ritmo e un significato». Da un lato nell'itinerario di Chateaubriand c'è la culla della classicità, il mondo antico degli eroi e degli dei, «la Grecia carica di gloria e di mito dove ogni pietra riecheggia un nome, uno scontro, un'orazione. Dall'altro c'è il luogo deputato del Verbo, lo scenario dove i Vangeli hanno preso vita, dove il Signore si è fatto uomo. In mezzo c'è quell'Oriente che è stato anche Occidente perché Costantinopoli è stata prima Bisanzio». Quando però Chateubriand arriva in Grecia si rende conto che di ciò che cerca non c'è più nulla. «Ebbene ho visto la Grecia, ho visitato Sparta, Argo, Micene, Atene. Bei nomi e niente altro, sempre più mi rendo conto che più si avanza nella vita più si perde qualche illusione. Non guardate la Grecia se non in Omero, è più sicuro». Eppure è così assetato di grandezza Chateaubriand da riuscire a farla scaturire anche quando sembra un'impresa disperata. Non possiamo colmare le ombre dei morti ma non possiamo nemmeno fare a meno di confrontarci col passato. La tradizione non è una cosa di cui ti puoi liberare con un atto della volontà: la storia non è acqua e i miti e le idee elaborati dai tuoi antenati risuonano anche nella psiche profonda del più laico tra i contemporanei, magari come insegnava il compianto James Hillman sotto forma di nevrosi o di malattia. Per questo Chateaubriand replica con la propria idea di mondo al vuoto lasciato da un universo scomparso e al disgusto che in un conservatore come lui provoca la modernità, il suo utilitarismo spietato, la meccanizzazione pervadente che macina ogni valore qualitativo, rende inutile ogni estetica, ridicolo il senso dell'onore. «Quando nel 1806 intrapresi il viaggio d'oltremare - scrive Chateaubriand nella prefazione all'Itinerario - Gerusalemme era quasi dimenticata: un secolo antireligioso aveva perduto la memoria della culla della religione: poiché non c'erano più cavalieri, sembrava non ci fosse più la Palestina». Sulla Grecia annota: «Si tratta di sapere se Sparta e Atene rinasceranno o se resteranno sepolte per sempre nella polvere». Chateaubriand rimette agli onori della cronaca i luoghi santi della cristianità e elegge la causa greca alla causa per eccellenza della migliore gioventù europea che si svena nelle rivoluzioni nazionali osteggiate dalla rezione. Uno sforzo di sublimazione già notevole per allora. La descrizione di Solinas di queste realtà oggi è più prosaica. «Al moderno viaggiatore che, due secoli dopo, voglia ripercorrere quell'itinerario, la storia si diverte a ripresentare quei luoghi modificati di senso e di segno?». Anche se Grecia e Palestina restano luoghi fatidici, pietre d'inciampo e fomiti della crisi perdurante in queste aree di mondo che sono le colonne della civiltà classico-cristiana. La Grecia per i noti motivi riportati dalle cronache: «Un paese fragile - lo definisce Solinas - clientelare quanto rissoso nel suo rapporto con la politica, economicamente arretrato: niente industria e servizi, troppi dipendenti pubblici? la corruzione e la mediocrità della classe dirigente hanno fatto il resto fino alla bancarotta che fa di questa nazione il sorvegliato speciale dell'Europa». Quanto alla Palestina: «Siamo di fronte a un vero e proprio terremoto geopolitico rispetto al passato: c'è un nuovo Stato e una nuova nazione che si chiama Israele, c'è una nazione senza Stato che è la nazione palestinese». In un conflitto cronico che ha incancrenito e incattivito tutto. «Andare oggi in Palestina significa viaggiare nel buco nero del nostro tempo». Anche il viaggio in mare riserva squarci di sociologia contemporanea. Solinas e il suo compagno di viaggio vengono fatti salire su un Azimut da qualche milione di euro: «L'armatrice era una miliardaria spagnola di nome Niki che viveva a Londra. Poi c'erano le sue amiche Daisy, proprietaria di cavalli da corsa ed elicotteri e Carmen padrona, sempre a Londra, di un salone di bellezza, il brasiliano Roberto architetto che viveva fra Rio e New York, l'irlandese Patrick, che faceva compravendita immobiliare? tra un karaoke e un altro Flavio ci aveva introdotto ai piaceri di Myconos: la spiaggia dove gira più coca in assoluto è super paradise; molto giovane, molto alcol, tanta musica. C'è un italiano simpaticissimo che gira tutto depilato, ha un tanga e davanti una fitta proboscide, troppo divertente». Un istantanea del jet set globale contemporaneo che vale più di dieci saggi in materia. C'è una malinconia splendida che avvolge le pagine di Solinas, ora amara e ironica ora capace di accogliere scorci, panorami e idee che evocano una dimensione inattuale e per la quale però ogni uomo ben nato ha una nostalgia innata. Un sentimento che nel libro si tende come in un campo di forza dove i protagonisti sono la ricerca e l'avventura, il viaggio e la giovinezza come categoria dello spirito, la consapevolezza di non essere figli di questo tempo ma anche la volontà di viverlo fino in fondo senza sottrarsi alle sue contraddizioni e alle sue opportunità. L'anima dei luoghi tacerà pure, fugata dai motoscafi e dai decerebrati miliardari di Myconos, ma chi s'è curato di non far avanzare dentro di sé il deserto avrà sempre un amico con cui partire, una giovinezza da onorare, uno Chateaubriand da inseguire. I veri happy few. "Noi pochi, noi felici pochi?».