Lo hanno trasformato in un'icona farlocca della prosopopea di Stato, un soldatino arruolato contro la sua volontà nella prima linea della Guerra fredda. Poi, quando è salito in cima al mondo, quando il suo telento non serviva più alla macchina della propaganda, lo hanno prima ignorato e infine perseguitato, fino all'ultimo respiro, giocando al gatto col topo. Robert James Fischer, al secolo "Bobby" è morto da latitante, nella piccola Islanda, l'isola di ghiaccio che aveva assistito al suo trionfo e, 35 anni dopo, al suo malinconico crepuscolo. L'accusa?Attività antiamericane: nel 1992 aveva violato l'embargo dell'Onu e le sanzioni Usa alla Serbia di Slobodan Milosevic volando a Sveti Stefan, una piccola isola del Montenegro per un'esibizione di scacchi, la "rivincita" amichevole del celebre match di Reykjavik del '72 vinto contro Boris Spassky. Quelli del tribunale distrettuale di Columbia gliel'hanno giurata e per lui chiedono una pena esemplare: dieci anni di prigione. Nella conferenza stampa che segue il match, Bobby mostra ai fotografi l' "ordine esecutivo 12.810" del Dipartimento di Stato che lo diffida a partecipare all'esibizione in Yugoslavia e ci sputa sopra prima di stracciarlo. Ora lui e gli Stati Uniti sono ufficialmente in guerra, guerra asimmetrica che puoi sperare di vincere solo se ti fai invisibile.L'aspetto più estraniante della vicenda è il volto anonimo dell'inquisitore, come se la pena fosse emanata da un'entità trascendente, una vendetta biblica compiuta da un angelo senza nome attraverso, però, la grigia ferocia della burocrazia. Quale giudice si nasconde dietro il warrant for arrest issued on december 15, 1992 by the United States District Court, District of Columbia ? Nessuno lo ha mai saputo, nessuno lo saprà mai.Non tornerà più in patria e da quel momento diventa un fantasma; appare e scompare qui e là e attorno al suo spettro si alimentano le leggende metropolitane, le dicerie, le iperboli: c'è chi dice di averlo visto a Budapest dove vive in incognito, passeggiando sotto i monumenti equestri consacrati agli eroi dell'Impero austro-ungarico e bevendo caffè turco; c'è chi giura di averci giocato a scacchi su internet come il grande maestro britannico Nigel Short, altri sostengono che viva in Danimarca, forse in Argentina, altri nelle Filippine, altri ancora lo avrebbero avvistato in Giappone. Dov'è Bobby? Gli anni 90 sono tutti un arte della fuga, ma senza agitazione, lui scivola nel torpore di nascondigli eccentrici, approfitta della rete di protezione dei pochi amici che gli sono rimasti e in fondo non fa che assecondare la sua inclinazione all'isolamento. Non giocherà più a scacchi ma questi rimangono la sua lingua naturale, ogni pensiero è filtrato da quell'allegorico campo di battaglia, un limbo che altera la stessa percezione del tempo e fa trascorrere i giorni in una frenesia tranquilla.Quella di Bobby è la parabola crudele di un'ascesa e di una persecuzione. Bambino prodigio, forse autistico, forse schizofrenico: a sei anni si tuffa nel labirinto di colonne e traverse, case bianche e case nere, l'universo di pezzi volteggianti in cui l'immaginazione si arrampica sulla logica, un po' come i balconi ai palazzi della sua Brooklyn, dove cresce tra le intermittenti attenzioni della mamma Regina. A sei anni, per caso, gli regala una scacchiera e da quel labirinto non ne uscirà mai più. Non ha mai saputo nulla del mondo, Bobby Fischer, non leggeva giornali, non ascoltava la radio, non vedeva la televisione, solo libri e riviste di scacchi, riviste e libri di scacchi. La dolce ossesione s'incastra nella mente di un genio e a 14 anni lo fa diventare campione degli Stati Uniti (14 vittorie su 14 partite) umiliando uno dopo l'altro gli increduli e titolati giocatori del Paese. È già tra i più forti al mondo, ma gli ci vorranno altri 15 anni per arrivare alla vetta, per scalare la montagna sovietica, l'invincibile armata di grandi maestri formati nei palazzi dei pionieri di Mosca e Leningrado, un sistema marmoreo di conoscenze scientifiche e staliniana dedizione alla causa ma anche una panoplia di allenatori, personal trainer, parapsicologi, accompagnatori ufficiali, tetragoni funzionari di partito, milioni e milioni di rubli investiti dal Cremlino per far crescere il gioco che rappresenta la superiorità intellettuale dell'Unione sovietica sul mondo occidentale. Lui è solo contro quel sistema, armato di un talento sconfinato e una forza di volontà, ma comunque solo. Per sbarrargli la strada gli avversari fanno squadra e nei grandi tornei internazionali danno il massimo quando lo incontrano per poi terminare con delle patte veloci i derby tra di loro, comportamento antisportivo ma non illegale. Bobby è rabbioso, denuncia la combine, si ritira da alcuni tornei, sparisce dalla circolazione. Ma è solo questione di tempo, deve maturare, non farsi condizionare dal carattere prima o poi l'occasione arriverà. L'occasione arriva alla fine del 1970 al torneo dei candidati di Palma de Maiorca dove demolisce tutti i grandi scacchisti dell'epoca (Larsen, Petrosijan, Taimanov) e si candida a sfidare il campione del mondo.Il "match del Secolo" si gioca nel settembre del '72 a Reykjavick ed è un coacervo di simbologie sovrapposte, di destini incrociati, di capricci inesaudibili di pressioni politiche. L'avversario di Bobby non è certo il prototipo di scacchista amato dai papaveri di Mosca: troppo mondano e disponibile con gli avversari, un uomo che possiede una cordialità d'altri tempi, comprensivo, al limite della fraternità verso i capricci dell'americano per il quale provava una innata simpatia e che negli anni diventerà suo amico. Un "buono", amante dell'arte e del garbo, ma soprattutto un grandissimo giocatore che Bobby apprezzava e stimava sinceramente. Ma il climax prevedeva altri furori, altre deviazioni, altri tortuosi accadimenti. I due sfidanti si sentono ostaggio della rispettiva propaganda, Boris in fondo ci è abituato. Bobby invece sembra instabile e tira fuori il peggio del suo repertorio. Minaccia più volte di tornare in patria adducendo motivazioni assurde: le luci troppo forti, poi troppo deboli, gli spettatori troppo vicini, la sala poco insonorizzata. Perde malamente la prima partita e non si presenta a quella successiva. Dopo due partite è sotto per due a zero. A Washington sono molto preoccupati e temono il peggio, riceve una telefonata del Segretario di Stato Henry Kissinger, giocatore amatoriale (pare che il presidente Nixon non conoscesse le regole degli scacchi) in cui viene invitato a giocare perché ne va dell'onore del "mondo libero" contro il regime comunista. In realtà Fischer è nel suo elemento e le sue gesticolazioni mandano in confusione il clan avversario. Bobby aveva bisogno di quella puerile drammaturgia per riannodare il filo dei pensieri e delle motivazioni per "caricarsi" come dicono gli sciatti cronisti sportivi di oggi. Alla fine sarà Spassky a venire travolto dalla tensione psicologica: nelle partite successive viene polverizzato dall'americano che vince il match con uno scarto di quattro punti.Il campione del mondo è lui, ha 29 anni e negli Stati Uniti è una celebrità al pari di Elvis Presley e Joe Di Maggio. Rilascia interviste ai principali quotidiani, viene invitato nelle più note trasmissioni tv, il sindaco di New York organizza una cerimonia in suo onore. Nella sua ingenuità credeva che lo avrebbero ricevuto anche alla Casa Bianca con tutti gli onori, ma non è andata così. Non verrà mai invitato, troppo ingombrante e anarchico, troppo imprevedibile e refrattario ai protocolli, uno sgarbo che lo ferisce profondamente perché in quel momento capisce di essere stato usato come un feticcio per la propaganda di Stato, ostaggio di giochi politici incomprensibili e meschini.In ogni caso non rimette più in palio il titolo, pone condizioni impossibili per qualsiasi sfidante e nel 1975 è logicamente squalificato dalla Federazione internazionale di scacchi (Fide) che assegna il titiolo d'ufficio al giovane sovietico Anatolj Karpov. Fischer non parteciperà mai più a un torneo ufficiale e scompare di nuovo dalla circolazione. Si ritira a Pasadena (California) dove dilapida in fretta il suo patrimonio; viene adescato dalla Worldwide Church of God, una setta millenarista e vetero-testamentaria fondata negli anni 30 da Herbert W. Armstrong, un guru che aveva profetizzato il ritorno di Gesù Cristo in terra dopo un'apocalisse nucleare che avrebbe dovuto radere al suolo l'America alla metà degli anni 70. Finito in povertà vive come un clochard, barba lunga, vestiti sudici, vagabondaggi notturni. Una sera mentre cammina caracollante in mezzo alla strada viene scambiato per un rapinatore da una pattuglia della polizia che lo arresta. Passa due giorni nella cella di un commissariato di Pasadena dove viene picchiato e umiliato, quando lo rilasciano nemmeno una parola di scuse. La mente di Bobby sta incubando odio, odio per il suo paese.Dopo il nascondino che segue il mandato di cattura del '92, la sua voce riappare alla radio pubblica delle Filippine per commentare gli attentati dell'11 settembre 2001 ed è uno choc: «Sono davvero molto contento, l'America si merita tutto questo», dichiara tra lo sconcerto prima di lanciarsi in una becera invettiva contro gli ebrei che «dominano il mondo». Ebreo lui stesso e ferocemente antisemita, una contraddizione che più di tutte racconta la follia e lo smarrimento di un uomo che per tutta la vita ha solo pensato agli scacchi, un idiot savant  dal quoziente intellettivo di un genio, ancora più alto di quello di Albert Einstein.Bobby torna a occupare le prime pagine dei giornali nel 2004 quando è fermato dalla polizia dell'aeroporto Narita di Tokyo: il suo passaporto è scaduto, è entrato illegalmente in Giappone e ora prova a uscirne sempre illegalmente, inoltre sulla sua testa pende una richiesta di estradizione dagli Usa. La sua detenzione dura dieci mesi, due nella cella dell'aeroporto, altri otto nella prigione Ushiko a nord di Tokyo. In suo favore interviene l'amico Spassky: «Io e Bobby ci siamo macchiati dello stesso crimine, gli Stati Uniti chiedano anche il mio arresto e ci mettano in cella assieme, possibilmente con una scacchiera a nostra disposizione». La svolta viene ancora una volta dalla piccola isola di ghiaccio. Bobby chiede al governo di Reykjavick la cittadinanza e il parlamento gliela concede per «meriti speciali», in fondo è grazie a lui se quello scoglio lattiginoso è diventato: il 23 marzo 2005 Fischer è un cittadino islandese, ma soprattutto è un uomo libero, Tokyo non ha concesso l'estradizione e ora Washington deve mangiare la polvere. Gli ultimi anni sono una dissolvenza serena che scivola verso il nulla, nella luce diafana del polo d'estate e nelle sue cupe notti d'inverno, nere come il petrolio. Passeggiate nei paesaggi vulcanici con la moglie, la giapponese Miyoko Watai. Il più grande scacchista di tutti i tempi muore il 17 gennaio del 2008 per un'insufficienza renale, il suo corpo è sepolto nel Church Cemetery di Laugardælir.