Più delle rassegne stampa che nei giorni scorsi lo hanno presentato come un possibile successore di Matteo Renzi a Palazzo Chigi per un governo "istituzionale" o "di scopo" in caso di bocciatura referendaria della riforma costituzionale, spero che il presidente del Senato Pietro Grasso abbia messo nella valigia delle vacanze, per leggerlo magari sotto l'ombrellone, il libro recentemente pubblicato dall'editore Pacini con le 45 lettere scritte da Enzo Tortora alla compagna Francesca Scopelliti dalle carceri di Roma e di Bergamo. Dove il popolare conduttore televisivo fu rinchiuso fra il 1983 e il 1984, in attesa di processo per droga e associazione camorristica.Dopo una prima condanna a 10 anni di carcere, nel 1985, a Napoli, Tortora fu assolto in appello nel 1986 con sentenza confermata in Cassazione nel 1987. Ma morì meno di un anno dopo, a soli 59 anni, per un tumore che aveva aggredito un fisico fortemente indebolito da una vicenda considerata fra le più scandalose della già troppo tormentata storia della giustizia italiana.Il sistema giudiziario, come ebbero il coraggio di sostenere i magistrati e i loro corifei, funzionò con l'assoluzione finale dell'imputato innocente. Ma a quale e giusto prezzo per la credibilità delle toghe, inquirenti e giudicanti, ma soprattutto inquirenti, si vide nell'autunno del 1987. Quando un referendum promosso dai radicali di Marco Pannella e sostenuto dai socialisti, inutilmente rinviato di qualche mese ricorrendo addirittura alla crisi del governo di Bettino Craxi e alle elezioni anticipate, abrogò a grande maggioranza le norme che blindavano i magistrati dal rischio di rispondere dei loro errori. Li blindavano cioè dalla cosiddetta responsabilità civile.Gli elettori accolsero inconsapevolmente una delle più clamorose proteste levatesi da Tortora in prigione. Inconsapevolmente, perché allora non si conosceva questo passaggio di una delle lettere di Enzo a Francesca, scelta giustamente dall'editore come sottotitolo nella copertina del libro: "Solo i bimbi, i pazzi e i magistrati non rispondono dei loro crimini". Così Tortora considerava gli errori nei quali i suoi inquirenti s'erano intestarditi dando credito ai criminali - loro sì - che raccontavano frottole contro di lui per guadagnarsi benemerenze e ricavare, magari, solo qualche vantaggio nel trattamento carcerario. Il povero Tortora non si rassegnava, per esempio, all'idea di rimanere in carcere, dove era finito nell'ambito di una retata di 856 imputati di camorra, anche dopo che si era scoperto che il suo nome nell'agenda di un malvivente fosse solo un caso di falsa omonimia: un Tortona al posto di Tortora, e un numero di telefono che naturalmente non corrispondeva ad alcuna sua utenza.Purtroppo la giustizia fatta dagli elettori nel referendum del 1987, dando via libera alla responsabilità civile dei magistrati, fu rapidamente tradita dal governo e dal Parlamento. Dal governo proponendo e dal Parlamento approvando un disegno di legge che con la pretesa, o il pretesto, di disciplinare l'accesso alla responsabilità delle toghe in realtà lo precludeva, o quasi. Dovettero passare quasi 30 anni per rendersi conto che si potevano contare sulle dita di una mano i processi ammessi e per riuscire a cambiare quella legge, sia pure di poco. Ciò è avvenuto con il governo di Matteo Renzi fra le proteste della sempre sospettosissima associazione dei magistrati.La speranza che Pietro Grasso abbia messo nella valigia delle vacanze il libro contenente le 45 lettere di Tortora dal carcere, e l'appropriata prefazione di Giuliano Ferrara, nasce dalla presunzione ottimistica che il presidente del Senato non l'abbia ancora letto. E che la decisione da lui annunciata, all'uscita del volume, di negare l'autorizzazione alla sua presentazione in una sala dello stesso Senato, chiesta da Francesca Scopelliti in quanto ex senatrice, sia stata presa fidandosi solo dell'istruttoria, diciamo così, condotta dal competente ufficio di Palazzo Madama. Un'istruttoria conclusa -udite, udite - col rifiuto di considerare la diffusione delle lettere di Tortora e una riflessione sulla sua clamorosa vicenda giudiziaria compatibili con "le finalità istituzionali" del Parlamento. E dove altro si deve parlare dei problemi vecchi e nuovi della giustizia, e della grande riforma che è necessaria?Ho appreso da buona fonte che agli eccellentissimi esaminatori delle lettere di Tortora sono apparse particolarmente inaccettabili per il Senato le parole usate dall'allora detenuto non tanto contro i magistrati che si occupavano di lui, colleghi di Pietro Grasso, quanto contro Giovanni Spadolini. Che ai tempi della detenzione di Enzo era "solo" segretario del Partito Repubblicano Italiano e ministro della Difesa del governo Craxi, ma sarebbe poi diventato presidente del Senato entrando nella leggenda di Palazzo Madama.In effetti Spadolini, che usava fidarsi ciecamente dei magistrati, e aveva temuto negli anni della direzione del Corriere della Sera più la "Repubblica conciliare", sinonimo di quello che poi sarebbe stato chiamato "compromesso storico", che la "Repubblica giudiziaria", destinata ad affacciarsi negli anni Novanta e successivi, fu liquidato da Tortora, sino ad allora abituale elettore liberale, come "un tacchino farcito di parole".Fu un giudizio certamente duro quello di Tortora sul futuro presidente del Senato, ma frutto della comprensibile esasperazione di un uomo ingiustamente buttato dalla sera alla mattina dalle stelle alle stalle, dall'onore alla vergogna. Era tanto disperato Enzo da lamentarsi con Francesca anche dei suoi validissimi avvocati, considerati troppo pazienti e fiduciosi verso gli inquirenti.Se Pietro Grasso davvero si deciderà a leggere pure lui le 45 lettere di Enzo Tortora, encomiabilmente pubblicate una al giorno dal Mattino, il quotidiano di Napoli, la cui Procura incorse nella drammatica topica di un'accusa per la quale nessuno ha pagato, ricavando qualcuno persino vantaggi di carriera, converrà che negarne la presentazione in una sala del Senato è stato un errore. Un torto che la memoria di Tortora non meritava. E cui si potrebbe ancora rimediare, anche per non regalare a Matteo Renzi un'altra ragione in più per non fare rimpiangere questo Senato in caso di conferma referendaria della riforma costituzionale.