Doctor Faustus di Thomas Mann - è la storia della vita e soprattutto della follia del musicista Adrian Leverkùhn, raccontata da Serenus Zeitblom. Non si tratta di un semplice romanzo - uno dei più significativi e barometrici dell'interno Novecento - è qualcosa di più: è un'analisi delle "radici oscure" della Germania e dell'Europa, del suo sottosuolo culturale demonico, è una riflessione del perché la culla della cultura sia divenuta con il nazismo e la guerra mondiale prima il sabba e poi la tomba della civiltà. Per la responsabilità della cultura stessa, degli intellettuali che come Adrian - controfigura di Nietzsche - si votano deliberatamente alla volontà di potenza, al demoniaco. Come già Ivan dei Fratelli Karamazov e al Faust di Goethe, Adrian vede il Diavolo e con lui stringe un patto: avrà ventiquattro anni di intensa creatività e scriverà opere musicali eccezionali. Ma per questo, per la creazione dell'arte sublime, dovrà rinunciare a ogni sentimento e affetto. È lo stesso patto che il popolo e gli intellettuali tedeschi hanno stretto con Adolf Hitler. Un'opera fondamentale Doctor Faustus (ora ripubblicata dai Merdidiani Mondandori) per comprendere l'antica tentazione dell'Europa: quella di regredire al suo mai estinto sottosuolo demonico. Ai secoli del paganesimo e dell'oscurantismo, alla barbarie primigenia e però mascherando di argomentazioni questo viaggio agli inferi. Mann coglie perfettamente la contraddizione europea tra vita e cultura perché la vive in se stesso. La decadenza è proprio il divorzio tra vita e cultura, una divaricazione che produce il tuffarsi della ragione nell'inconscio per l'attrazione che l'eccesso d'astrazione subisce sempre verso l'immediatezza istintuale. E - annota Mann - l'Europa ha gli strumenti culturali per farlo con una certa ipocrisia, che rende l'operazione inizialmente invisibile e dunque micidiale. La parabola di Mann e l'altro suo libro I Buddenbrook spiegano ancora meglio questa idea. Thomas Johann Heinrich Mann aveva compreso subito che il figlio non avrebbe seguito le sue orme: nel testamento, scritto mentre Thomas frequentava ancora il liceo, stabilì infatti che l'azienda per il commercio all'ingrosso di cereali, assieme a tutti i magazzini, fosse messa in vendita. Thomas, agli occhi del padre, era dovuto dunque apparire sin dall'adolescenza un "inetto" alla vita attiva, secondo l'accezione che a questo termine darà Svevo, per definire quella tipologia umana che sembra vivere la vocazione artistica come un tradimento nei confronti delle cose serie della vita. In Mann la vocazione artistica infatti convivrà sempre col modello dell'educazione borghese: nella coscienza del più grande scrittore tedesco del Novecento, lavoro e letteratura, vita artistica e vita produttiva, otium e negotium costituiranno sempre i campi magnetici di una polarità e di una dicotomia irrisolta. Mann vivrà fino alla vecchiaia questo tormento portandosi appresso il fantasma di suo padre quale super-io giudicante un Es artistico vissuto come colpa, come, appunto, tradimento. «Vorrei che mio padre fosse qui a vedermi» disse lo scrittore ormai vecchio durante una celebrazione pubblica in suo onore. E sì che la fama mondiale e il premio nobel l'avrebbero potuto far sentire finalmente redento dalla trasgressione fatta alla regola borghese imposta dalla tradizione famigliare. Una tradizione che Mann ritrae magistralmente in quel grandissimo affresco della letteratura moderna che sono I Buddenbrook: un capolavoro assoluto che ha per oggetto la storia romanzata della stessa famiglia Mann attraverso quattro generazioni, dall'ascesa economica fino alla decadenza. È la storia dello sgretolarsi di una certa idea di borghesia, del disintegrarsi progressivo dell'epica dell'antica famiglia patriarcale e gerarchica, dei valori e dei principi che da stile di vita si riducono a vuote convinzioni. Johann Buddenbrook, capostipite della dinastia, incarna lo spirito borghese nella sua più alta espressione: è un uomo solido, forte psicologicamente, dotato fisicamente, culturalmente attrezzato, non privo di una sobria raffinatezza, moralmente ineccepibile. Il figlio Jean è il continuatore e il custode dei valori paterni ma ha minore decisione e un'irrequietezza esistenziale che si colora di venature mistiche. Nei suoi quattro figli però si perde anche quanto Jean aveva conservato in termini di passiva trasmissione del modello paterno: in Thomas - attratto dalla filosofia ma costretto al commercio e che vive indossando una maschera - Christian, Antoine e Clara, si avvertono, a tratti chiarissimi, i segni della decadenza. Un concetto che sarà sempre centrale nell'opera di Mann e che lo porterà a costruire concettualmente quella polarità dialettica tra Kultur e civilizzazione che farà da sfondo a tutto il lungo svolgersi di quel saggio romanzesco che sono Le considerazioni di un'impolitico. Nel figlio di Thomas la decadenza si dispiega compiutamente: attratto dalla musica, distratto, svogliato, inetto alla vita pratica, in questo giovane Buddenbrook si compie il processo terminale di una parabola discendente, che giunge al punto in cui, vita e arte, si divaricano irreparabilmente, in cui l'epica dell'impresa diventa mero commercio, in cui etica ed estetica si alienano dalla prassi della vita attiva. Da qui il conflitto che fu anche di Stendhal il quale, ne Il rosso e il nero, si chiedeva che senso potesse mai avere una vita in cui felicità e successo, onore e gloria, etica e vita erano costrette ormai a procedere parallele. In Mann la vocazione estetica e il disprezzo per le convenzioni e le norme restano le peculiarità dell'eroe decadente, ma a differenza di quanto accade in Stendhal, che risolve romanticamente e tragicamente il dilemma, queste caratteristiche non verranno celebrate ma giudicate da una coscienza che si sente tagliata fuori, sola, emarginata, vivendo però questa emarginazione come una colpa. Mann non rinuncerà mai infatti a cercare una conciliazione tra due aspetti che sente di dover ricongiungere, così nello stile come nel contenuto delle sue opere: «La sua produzione saggistica - scrive Claudio Magris - a cui affianca di continuo il lavoro narrativo?è lo strumento essenziale di questa costruzione di una continuità che, per il solo fatto di essere tale, ha pure una funzione rassicurante e consolatoria, esorcizza l'insostenibile radicalità della morte, della decadenza e dei suoi mostri, dell'abisso, dei dissidi irriducibili che lacerano l'unità della vita e della civiltà europea». Mann è lo scrittore che forse meglio ha espresso il dramma dell'artista borghese che è borghese in quanto proviene dalle fila della borghesia, ma che dalla sua classe di appartenenza in fondo viene respinto come "borghese sviato". Ma l'artista borghese, svevianamente inetto (e dunque paradossalmente sano), non fa altro che restituire alla propria classe di appartenenza la sua immagine decadente, rappresentando come si è detto, la malattia provocata dal distacco tra arte e vita: entità che procedono lungo binari divergenti. I borghesi delle ultime generazioni del resto si connotano per assenza di stile, gente che di precetti morali, di epiche estetiche o etiche non sa davvero che farsene essendo loro del tutto estranea la dimensione etica degli affari e la cui "coscienza" resta tranquilla anche dopo aver concluso commerci non proprio limpidi (con buona pace delle massime morali con cui il capostipite dei Buddenbrrok aveva educato la sua famiglia: «Non concludere mai un'affare che non ti farà dormire con la coscienza tranquilla»). E' su queste antitesi laceranti che Mann fa sentire l'influsso di Nietzsche e della sua psicologia della decadenza. E di Schopenauer, con la sua idea di superamento del dolore attraverso l'azzeramento della volontà di vita. Antitesi che Mann non risolverà mai del tutto, pur cercando con tutte le sue forze una superiore armonia che possa riscattare la contraddizione di fondo di un'intera epoca. Tonio Kroger, il personaggio che dà il nome al titolo del romanzo successivo ai Buddenbrook, è il simbolo di questa ricerca di una sintesi tra la coscienza borghese e l'estetica, tra l'arte e la morale, tra dignità e liberazione degli istinti, tra volontà e sensibilità. Tonio è uno scrittore affermato, che ha però pagato un prezzo alto per la sua intimità con le muse: isolamento e solitudine, emarginazione e lontananza dai commerci umani sono una condizione che Kroger sente come inflitta e non voluta. Per questo decide di mettere fine a questo dissidio e si dirige a nord (terra della ragione e della volontà) muovendo da sud (regione della sensibilità e della contemplazione). La Germania settentrionale, terra della sua infanzia, diventa lo scenario entro il quale l'artista dà vita al suo processo di individuazione finalizzato alla ricerca di una ritrovata completezza. Dalla Danimarca lo scrittore scrive una lettera alla pittrice Lisaveta Ivanovna, dove riassume la sua condizione sofferta. Ricordando i tempi in cui ragazzo già si sentiva diverso dai suoi coetanei che si davano allo sport e all'aria aperta mentre lui legge Schiller e consuma il tempo a pensare. Persino il suo nome, Tonio Kroger, riflette il contrasto tra due nature: tra la madre straniera che ha scelto il nome Tonio (nome latino e mediterraneo) e il padre Kroger il cui duro e consonantico cognome esprime tutta l'energia volitiva del commerciante di granaglie che era. Nel dialogo con l'amica Tonio argomenta dunque sulla necessità che l'artista, per dare dignità al suo lavoro e non perdere nelle sensazioni la sua anima, pratichi nell'arte una sorta di ascesi che lo distacchi e lo innalzi dalla vita concreta legandolo però alla severità dei ritmi della produzione borghese. Questa è la via che Mann dunque individua per conciliare le antinomie che lacerano la coscienza dello scrittore. Se dunque nel centro tematico del "Tonio Kroger" si trova il sentimento dell'arte e della letteratura intesa come peccato, secondo cioè quella contrapposizione che Kirkegaard aveva formalizzato nel dissidio tra vita etica e vita estetica al suo epilogo si giunge a una soluzione di questo problema. Questo dissidio tra arte e vita non è ovviamente solo un problema che investe la coscienza individuale di Mann: Mann ha piuttosto meglio di tutti gli altri saputo cogliere l'aura di una fase storica in cui l'arte rischiava di ridursi a semplice e inutile ornamento o ad appendice retorica di alcune ideologie. Ma di fronte a questo rischio concreto Mann non si rifugia nell'estetismo puro, nell'arte per l'arte, nel decadentismo, nella creazione artistica intesa come rito trascendente la "realtà ordinaria", egli imbocca piuttosto la dialettica della conciliazione degli opposti, l'assunzione di un "ottica doppia" per la quale la vita va letta secondo una prospettica plurale in cui i diversi piani percettivi possono essere ricompresi in un maturo, ampio e oggettivo sguardo d'assieme. In altri termini il distacco che ogni uomo opera in se stesso sapendosi veder vivere quella vita che colta nella sua immanenza pare assurda è il solo modo per recuperare un senso morale. Perché, come è stato giustamente detto, la vita degli istinti, immediata, e perciò a volta invidiabile da parte dell'artista escluso da essa, alla fine "per se stessa e da se stessa non fa civiltà". Che la civiltà passa necessariamente attraverso la purificazione dell'arte, superante "lo struggimento furtivo e roditore per le gioie della vita comune". Da questo punto di vista come non è detto che la decadenza abbia l'ultima parola così non è detto che gli Hagenstrom, i parvenu senza tradizione e senza scrupoli che scalzano i Buddenbrook, siano l'esito finale dell'involuzione dello stile e dei valori borghesi. Ciò che solo decade è la volontà di riaffermare certi principi, la volontà di vivere, la sicurezza di se, la decisione di fare di nuovo storia coi propri valori. In questo senso Thomas Mann, come Nietzsche, non è il cantore della decadenza. E' piuttosto tra coloro che l'hanno smascherata.