Aumentano i reclusi tossicodipendenti e la piaga dell’Aids dilaga all’interno delle galere con una incidenza 20 volte più alta rispetto alla comunità libera. A dirlo è un’insieme di studi appena pubblicati sulla rivista “The Lancet”che descrive i penitenziari di mezzo mondo come vere e proprie bombe epidemiologiche. Luoghi in cui Aids, ma anche tubercolosi ed epatite, si propagano a spaventosa velocità. Basti pensare che, solo in Europa, la loro incidenza è 20 volte più alta tra chi è dietro le sbarre rispetto al resto della popolazione. Secondo i ricercatori sarebbero tre i motivi principali. Il primo: la vicinanza fisica dei detenuti, costretti a condividere spazi comuni: celle, mense, servizi igienici. Il secondo: il numero sempre più alto di reclusi che finiscono in carcere per reati legati a spaccio, possesso di droga e tossicodipendenza. Il terzo: l’inefficienza e spesso la completa assenza di programmi socio-sanitari dedicati a questa categoria a rischio. La stessa organizzazione mondiale della sanità ha rivelato che le prigioni sono i punti chiave di contatto per la trasmissione di Hiv. Il risultato delle indagini rivela che ci sono più alti tassi di Hiv nelle carceri rispetto alla società libera. In Italia la situazione rimane grave. In carcere una persona su tre è malata. Spesso senza saperlo. E se la notizia trapela, essere sieropositivo in carcere è come vivere un incubo dentro un altro incubo: l’Hiv non è una patologia come un’altra, ma è oppressa dallo stigma sociale e dalla mediocrità delle informazioni; se si aggiunge il carcere, il risultato è spaventoso. Secondo dei vecchi dati, mai aggiornati, il 28% dei detenuti è positivo all’epatite C, il 7% all’epatite B, il 3,5% all’Hiv, il 20% ha una tubercolosi latente e il 4% è positivo alla sifilide E se questi numeri sono già spaventosi, va aggiunta la scarsa consapevolezza: un terzo ignora di soffrire di una patologia, ritardando così l’assunzione di farmaci e rischiando di contribuire inconsapevolmente alla diffusione. Per coloro che vengono curati, sorgono altri problemi. Non di rado i detenuti cambiano la terapia perché vengono trasferiti in altre carceri: cambiare carcere, nella maggior parte dei casi, vuol dire cambiare terapia e di conseguenza la cura risulta inefficace. Ma accade anche che la terapia venga interrotta e ciò significa far aumentare la carica virale dell’Hiv.Il virus si riproduce velocemente e la non aderenza fa la differenza tra una patologia tenuta sotto controllo e una patologia che rischia di diventare incontrollabile. Rimane comunque il dato oggettivo – specificato anche dalla relazione del ministero della Salute – che l’assistenza infettivologica in molte realtà penitenziarie è ancora fornita in maniera occasionale e spesso solo su richiesta di visita specialistica da parte delle Unità Operative di assistenza penitenziaria. Le richieste di visita presso i centri ospedalieri, invece che in carcere, sono ancora troppo elevate rispetto a insufficienti risorse di personale per le traduzioni; questo determina di fatto una discontinuità nel percorso assistenziale di cura e trattamento. Poi c’è mancanza di prevenzione. In Spagna ad esempio, quando si entra in carcere, i detenuti ricevono un kit con prodotti per l’igiene, siringhe, preservativi, detergenti e altro di cui puoi avere bisogno.Il ministero della Salute ha rilevato il problema e a più riprese ha cercato di trovare risposte efficaci per risolverlo, per questo ha avviato una serie di bandi di gara in base alle linee di guida internazionali. L’ultimo suo rapporto sulla situazione dell’infezione da Hiv nelle carceri è a dir poco allarmante. Con il passaggio del 2008 dal ministero della Giustizia al Servizio sanitario non sono da allora più disponibili dati inerenti i pazienti HIV detenuti su scala nazionale, fino ad allora resi disponibili dall’Amministrazione Penitenziaria. Ma il ministero della Salute fa sapere che secondo degli studi osservazionali indipendenti condotti dal 2005 al 2015 su campioni significativi di popolazione, la prevalenza appare in lieve riduzione dal 8% al 5% circa attuale, che rappresenta comunque un dato oltre 20 volte superiore a quello rilevato nella popolazione generale. Non sono stati condotti in Italia studi relativi all’incidenza di nuove infezioni e non è quindi noto il tasso di siero-conversione annuo in carcere, pur essendo stati riportati singoli casi di siero-conversione durante detenzioni ininterrotte (dato non pubblicato). Ugualmente è noto come pratiche “a rischio” quali rapporti sessuali non protetti, utilizzo di aghi usati e tatuaggi siano tuttora comuni all’interno delle prigioni. Il tasso di infezione tra le donne detenute (5% del totale) è risultato in diverse osservazioni superiore anche del 50% rispetto alla popolazione maschile. Secondo il ministero è quindi necessario disporre di dati epidemiologici ufficiali e certi in base ai quali individuare le criticità sanitarie intramoenia ed allocare gli opportuni interventi.Appare - spiega sempre la relazione ministeriale - non più differibile la creazione presso l’Istituto Superiore di Sanità di un Osservatorio Nazionale sulla Salute in Carcere, in grado di coordinare i già previsti “Osservatori regionali per la tutela della salute in carcere” fornendo dati epidemiologici aggiornati. Inoltre, secondo i dati dell’Ecdc (European Centre for Disease Prevention and Control), gli interventi di prevenzione sulla popolazione “a rischio”, in particolar modo in alcuni sottogruppi, appaiono ancora insufficienti sia a causa di barriere politiche e legislative che dello stigma e della discriminazione. In considerazione del fatto che il 40-50% delle nuove infezioni da Hiv riguardano soggetti target ed i loro partners, continuano ad essere forti in tutto il mondo le raccomandazioni sugli interventi di prevenzione, quali utilizzo dei preservativi, PrEp, Pep, riduzione del danno, offerta del test e counseling, assistenza ed offerta terapeutica. L’offerta del test in Italia è ancora regolata dalla L. 135/1990, privilegiando il diritto di tutti i cittadini ad eseguire il test Hiv solo dopo aver espresso il proprio assenso (opt-in); peraltro, in studi prevalentemente condotti in Usa, è stata dimostrata la fattibilità e l’accettabilità in ambiente penitenziario della strategia dell’offerta del test Hiv opt-auto, ovvero senza richiedere l’assenso.