«Possiamo affermare con ragionevole certezza che il 16 marzo del 1978 in via Fani c’era l’esponente della ‘ndrangheta Antonio Nirta». Parola di Beppe Fioroni, presidente della commissione d’inchiesta bicamerale che indaga per la millesima volta sul rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. La butta lì come se nulla fosse, anche se a prenderla sul serio la fragorosa "ragionevole certezza" rovescerebbe come un guanto vecchio la storia italiana recente. Gli stessi media, solitamente pronti a saltellare come cani di Pavlov di fronte alle "rivelazioni clamorose", procedono stavolta con i piedi di piombo. Come si dice in gergo, "la danno bassa". Consapevoli, persino loro, di quanto poco misteriosi si siano rivelati, alla prova di uno sguardo meno superficiale, i misteri del caso Moro.Stavolta la montatura è più vistosa del solito. La certezza di Fioroni si basa sull’analisi fatta dai Ris di una foto scattata in via Fani non durante la mattanza ma un’oretta più tardi. Hanno concluso che tra il boss della ‘ndrangheta e uno dei curiosi accorsi sul luogo della strage «c’è un’analogia sufficiente a far dire, in termini tecnici, che c’è assenza di elementi di netta dissomiglianza». Sarà sufficiente per considerare accertata la presenza del banditone in via Fani, non solo a strage perpetrata ma anche un’ora prima, col mitra fumante in mano?Fioroni però non si accontenta. E’ bulimico. Un bandito non basta, sospetta la presenza di un secondo uomo delle ‘ndrine, Giustino De Vuono: «C’è una perizia analoga sul volto di un altro personaggio legato alla malavita e che comparve tra le foto segnaletiche dei possibili terroristi il giorno dopo il 16 marzo». Roba forte.I nomi di Nirta e De Vuono non sono una novità per il manipolo di perversi che da decenni si aggira nel labirinto dei falsi misteri del caso Moro. Nirta era stato indicato già nel 1993 dal boss della ‘ndrangheta Saverio Morabito come infiltrato nelle Br dal generale dei carabinieri Delfino. Si rivelò una fandonia e difficilmente le cose cambieranno sulla base della "non netta dissomiglianza".Il caso di De Vuono è più interessante. Nella saga fantasy del sequestro Moro incarna infatti una leggenda longeva, pietra angolare delle costruzioni più azzardate. Un testimone, Pietro Lalli, dichiarò di aver notato nel corso dell’attacco un brigatista molto più esperto degli altri. Mitragliava a raffica, saltava all’indietro per allargare il raggio di tiro, solo dalla sua arma sarebbero usciti 49 dei 91 proiettili sparati dai brigatisti. E chi era, Pecos Bill? Probabilmente sì, essendo appunto questo il soprannome di Valerio Morucci nel Movimento romano, in virtù della sua dimestichezza con le armi. In un saggio appena pubblicato dalla casa editrice "Les Flaneurs", Cronaca di un delitto politico, il giovane ricercatore Nicola Lofoco si è preso la briga di confrontare il testo della deposizione di Lalli con la ricostruzione fatta dallo stesso Morucci, dimostrando che i racconti coincidono e che i movimenti di "Pecos" corrispondono a quelli registrati da Lalli. Quanto alla massa di colpi sparati da un solo mitra, Lofoco fa notare che per la verità raggiunsero tutti una sola vittima, l’agente Iozzino, oppure andarono a vuoto. Superkiller sì, ma fino a un certo punto.La commissione presieduta Fioroni è la seconda a occuparsi esclusivamente del fattaccio, dopo quella istituita nel 1979 che esaurì il mandato nel 1983. I 55 giorni del 1978 sono però stati centrali nella lunghissima attività della commissione Stragi, dal 1988 al 2001. Se ne è poi occupata la commissione d’inchiesta sulla P2 e anche, più di striscio, quella sul dossier Mitrokhin. Tra una cosa e l’altra, trattasi dunque della quinta indagine parlamentare sulla strage di via Fani. Tante commissioni quanto i processi propriamente detti.Nel frattempo si sono accumulati misteri, sempre presunti, fantasie, sempre sbrigliate, rivelazioni clamorose, sempre inconsistenti, decine di volumi, quasi sempre sconfinanti nel delirio. Questa montagna di ipotesi confuse, farraginose e contraddittorie, basate sul criterio del "mi sa tanto" e poi supportate da elementi concreti che dire tirati per i capelli è niente, ha di fatto sostituito nell’immaginario la realtà storica. L’ultima ondata di misteri, che vede sulla schiumosa cresta la commissione parlamentare, appare a occhio nudo anche più sgangherata delle precedenti. Hanno trovato credito sui media testimonianze meno credibili dell’invasione Ufo, come quella secondo cui Cossiga in persona si sarebbe aggirato intorno alla Renault col corpo non ancor scoperto di Moro in via Caetani, la mattina del 9 maggio 1978, o come quella che raccontava di nuclei speciali pronti a irrompere nella "prigione del popolo" di via Montalcini e fermati in extremis da un telefonata. La stessa commissione, impavida, ha sostenuto che il bar Olivetti, dietro le cui siepi erano appostati i 4 br travestiti da avieri, non fosse chiuso da tempo come universalmente sostenuto ma aperto e che in via Fani fossero assiepati ben 20 brigatisti, che tanto valeva andarsi a prendere il povero Moro in corteo.Anche una pseudoscienza infima come la dietrologia ha un apogeo e una mesta decadenza. La prima ondata misteriologica rispondeva a un logica politica: assolvere il Pci dal fallimento storico dell’unità nazionale, cancellarne l’imbarazzante presenza nell’album di famiglia del terrorismo rosso, coprire le responsabilità dirette dello stesso Pci nella scelta di sacrificare l’ostaggio pur di non trattare con un’organizzazione "concorrente". La seconda ondata, negli anni ‘90, mirava a rovesciare le accuse con una narrazione uguale e contraria, nella quale al posto degli americani c’erano, nei panni dei burattinai, i russi. Quest’ultima messe di scoperte ancor più farneticanti dimostra che la dietrologia sul caso Moro è ormai un territorio franco a disposizione di chiunque: politici in cerca d’autore, autori in cerca di editore, picchiatelli in cerca di un pubblico da perseguitare con le proprie paranoie.