Bernardo Provenzano è morto ieri in regime di carcere duro, ai sensi dell’art. 41bis, quello che nel mondo viene considerato senza mezzi termini tortura. Era entrato in carcere nel 2006, dopo 43 anni di latitanza. Da un anno sopravviveva in stato vegetativo. Con tutta la sua ferocia e i suoi crimini, non avergli permesso di morire in un carcere normale copre di vergogna lo Stato italiano.Tra i contadini di Corleone diventati imperatori di Cosa nostra, Bernardo Provenzano è il più enigmatico. Era uomo di mano e di pistola, soprannominato Binnu u tratturi perché «tratturava tutto e dove passava lui non cresceva più l’erba», come da descrizione di Antonino Calderone, fratello del capomafia di Catania Pippo, uno dei tanti fatti ammazzare dai corleonesi. Però era anche "il ragioniere", perché il suo governo di Cosa nostra è stato mite a paragone della ferrea dittatura esercitata dai compaesani Totò u Curtu Riina e Leloluca "Luchino" Bagarella. Di Riina Binnu è stato sempre il compare più fidato, eppure proprio su di lui ha sempre aleggiato il sospetto di aver dato una mano a chiudere la carriera criminale dell’onnipotente zu’ Totò. Non per sete di potere ma per mettere fine alla guerra senza prigionieri che il capo dei capi aveva dichiarato allo Stato e dalla quale Cosa nostra rischiava di uscire distrutta. Per caso o per calcolo, è un fatto che quella guerra Provenzano scelse di non combatterla, recuperando l’uso antico della mafia siciliana: scivolare sott’acqua e rendersi invisibile quando la tempesta infuria.Biografie identiche quelle di Provenzano, Riina e dei fratelli Bagarella. Tutti di Corleone, poverissimi, figli di famiglie contadine nella miseria del dopoguerra siciliano, viddani cresciuti con la puzza della fame addosso. Amici sin dall’infanzia, complici sin dai primi crimini. Erano l’ultimo gradino di Cosa nostra, un altro universo rispetto all’aristocrazia mafiosa dei Bontade di Palermo, "principi di Villagrazia", o del corleonese don Michele Navarra, tanto potente da essere soprannominato "u patri nostru", grande elettore dei notabili Dc dell’epoca incluso Bernardo Mattarella, padre dell’attuale capo dello Stato.I futuri corleonesi erano manovalanza. Picciotti reclutati e combinati mafiosi da Luciano Leggio, campiere e braccio destro di Navarra, per occuparsi dei lavori sporchi e sanguinosi. Non avevano amicizie potenti tra i politici. Nella rete di alleanze famigliari e territoriali che costella e sostanzia la mappa di Cosa nostra neppure comparivano. Le sole risorse di cui disponessero erano la ferocia e la determinazione, figlie entrambe della fame. Se c’è un giorno che segna il passaggio dalla mafia tradizionale alla moderna Cosa nostra è il 2 agosto 1958, quando un autocarro bloccò in una strada di campagna la 1100 sulla quale viaggiavano u patri nostru con un giovane collega e i viddani di Leggio trucidano il potente boss con 92 colpi. Senza chiedere il permesso a nessun padrino. Incuranti dell’alto lignaggio mafioso della vittima e delle liturgie di Cosa nostra. Contando solo sulla forza e sulla potenza implicita nel fatto compiuto.L’uccisione di Navarra registra un modus operandi che i contadini di Corleone adopereranno più volte nei decenni seguenti: disprezzo per le regole mafiose, rapidità e spietatezza nel colpire, ferocia nello sterminare i nemici. La leggenda vuole che all’uccisione del dottore sia seguita una strage con almeno un centinaio di cadaveri. Le vittime della purga furono in realtà molte di meno, ma il metodo era davvero quello: niente prigionieri. Nel 1963 Provenzano fu denunciato per l’omicidio di uno degli ultimi fedeli di Navarra. Scelse di darsi latitante e tale sarebbe rimasto per i successivi 43 anni.Ancora più di Riina, Binnu era uomo d’armi, considerato più per le doti guerresche che per quelle diplomatiche o strategiche. Quando nel 1969 la "commissione" decise di eliminare il boss che aveva innescato la prima guerra di mafia negli anni ‘60, Michele Cavataio, nascostosi a Milano, ogni capo indicò uno o più killer. Leggio spedì Provenzano e Calogero Bagarella, fratello maggiore di Leoluca e Ninetta, fidanzata e poi moglie di Riina. Arrivarono in via Lazio, dove si rifugiava la vittima, travestiti da poliziotti. Cavataio mangiò la foglia. Era un osso durissimo: pur colpito ferì a morte Bagarella, se la pistola non si fosse inceppata avrebbe eliminato anche Provenzano. Anche il mitra di Binnu si inceppò subito dopo. Provenzano non si fermò per questo. Strappò di mano a Cavataio la pistola, lo abbattè colpendolo col calcio della stessa. Il soprannome u tratturi se lo guadagnò lì.I corleonesi si erano ritagliati il loro posto nelle gerarchie di Cosa nostra, ma pur sempre di bassa forza si trattava. Quando nei ‘70, grazie all’eroina, i soldi iniziarono a diluviare sulle famiglie siciliane, i viddani dovettero accontentarsi delle briciole. A chi gli proponeva di eliminare Riina, diventato capo dei coleonesi dopo l’arresto di Leggio, Stefano Bontade, capo della famiglia di Santa Maria del Gesù, la più potente di Palermo, rispondeva con noncuranza: «Ma no, lascialo correre, tanto sempre da qui deve passare: è viddanu». Bontade, detto "il Falco", era il figlio di don Paolino Bontà, uno che prendeva pubblicamente a schiaffoni i politici poco solerti nell’obbedire. Aveva amicizie potentissime, un esercito ai suoi ordini, alleati quasi altrettanto potenti come Totuccio Inzerillo, cugino dei Gambino di New York. Riina e Provenzano lo fecero ammazzare la notte del 23 aprile 1981 inaugurando per la prima volta l’uso del Kalashnikov nell’isola. Bissarono meno di un mese dopo, adoperando la stessa arma per eliminare Inzerillo nonostante la protezione dei Gambino.La cosiddetta "seconda guerra di mafia", che cominciò con quelle raffiche di mitra, fu in realtà una mattanza a senso unico, il massacro di chiunque fosse considerato un nemico dai corleonesi. I grandi pentiti come Buscetta hanno sempre sostenuto che Cosa nostra è morta allora. Non hanno tutti i torti. La mafia siciliana, a modo suo, era sempre stata una democrazia. Nessuno aveva mai preteso di essere "capo dei capi". Il rigido rispetto delle regole era una favola, ma l’idea che persino i mafiosi dovessero adeguarsi a un codice c’era. Riina e Provenzano non conoscevano altro codice che il loro potere, la loro fu una dittatura tra le più spietate.Con lo Stato Totò u Curtu adoperò gli stessi mezzi che gli avevano assicurato l’impero su Cosa nostra. Ammazzò magistrati e poliziotti, provocò stragi, seminò terrore. Conosceva solo la forza, e con la forza tentò di costringere lo Stato a trattare. Uscito di scena lui, con l’arresto nel gennaio 1993, il cognato Bagarella decise di seguire la stessa strada. Provenzano no, e anche per questo riuscì a restare libero per 13 anni dopo la cattura di Riina, dominando con i suoi "pizzini", discretamente, senza spargere troppo sangue. Con gli anni, il sanguinario viddano morto ieri era diventato, a modo suo, un mafioso della vecchia scuola.