«Vado in Burundi a fare il medico». Totò Cuffaro, all’indomani delle polemiche scoppiate per la mancata concessione della Sala Mattarella di Palazzo dei Normanni per un convegno su "Universo carceri" a cui avrebbe dovuto partecipare, risponde così a Il Dubbio. «L’episodio si commenta da solo», continua l’ex presidente della regione Sicilia che, nel dicembre 2015,  ha finito di scontare nel carcere romano di Rebibbia,  la sua condanna a cinque anni per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra.Onorevole il convegno l’avete fatto lo stesso?Certamente. Abbiamo chiesto l’ospitalità ai Padri Rogazionisti, all’istituto Padre Annibale Maria di Francia nel quartiere Borgo Nuovo. Come ben sa, la Chiesa non chiude le porte in faccia a nessuno. A quel convegno tra i relatori c’era anche il professor Giovanni Fiandaca, da poco nominato dalla Regione garante dei detenuti.Le cronache parlano di un vero e proprio bagno di folla per lei.È così. Anche se rispetto a un tempo ho limitato le mie uscite pubbliche, la gente mi dimostra sempre un grande affetto. Mi avvicina, mi abbraccia, vuole sapere come sto e mi bacia.È ritornato “Totò vasa vasa”?Sono sempre stato così. È cambiato il senso del gesto. Prima ci poteva essere il dubbio che la gente lo facesse per interesse, oggi non è più così. Colgo emozione nelle tante persone che mi abbracciano. Il rapporto è più genuino e sincero. Non nascondo che ci scappa anche qualche lacrima.Torniamo al Burundi: perché questa scelta?Ci sono due ordini di motivi. Il primo è che in Italia non posso più esercitare la mia professione di medico, perché sono stato radiato dall’Ordine, in Burundi, invece, non esiste l’Ordine e c’è tanto bisogno di medici. Il secondo è legato al fatto che nel 2004, quando ero presidente della Regione Sicilia, grazie alla richiesta del vescovo che consentì l’accesso ai fondi della solidarietà internazionale, costruimmo l’ospedale “Ibitaro Cimpaye – Sicilia”, che significa “Dono di Dio”, intitolato a Giovanni Paolo II, nella provincia di Ruyigi, in Burundi. Nel frattempo la struttura è stata affidata ad un’organizzazione internazionale che fa parte della OMS, la “Mother World Foundation”. Oggi i vescovi di quel paese africano mi hanno ricontattato perché c’è bisogno di dare un nuovo impulso alla struttura, riorganizzarla e dare una mano.Lei è in partenza, quindi?Sì, starò lì un mese perché ho ottenuto il visto solo per un breve periodo. Il tempo di rendermi conto delle esigenze dell’ospedale: vaccini, farmaci, sale operatorie, e medici. Ma faremo partire anche un progetto legato all’agricoltura. Poi ritorno in Italia e insieme alla Mother World Fondation organizzeremo gli aiuti da inviare. Prevedo di ripartire per il Burundi in autunno. Pensi che in quel posto c’era una mortalità infantile che superava il 50%. Per ogni bambino che nasceva moriva una madre o un figlio. Quest’anno in quell’ospedale sono nati 750 bambini. Sono nati vivi. A noi basterebbe raddoppiare questi parti ben riusciti: portarli a 1500 per salvare altri 750 tra madri e figli, famiglie insomma.Quanti medici pensa di coinvolgere?Tanti già mi hanno dato la loro adesione, ma se la regione Sicilia approvasse la legge, già adottata da altre Regioni, che favorisce la concessione dell’aspettativa non retribuita per missioni umanitarie al personale medico tutto sarebbe più semplice. La Sicilia è storicamente terra di accoglienza. Lo ha dimostrato e lo dimostra. Non dovrebbe avere difficoltà ad approvare questa norma di civiltà. Ho l’impressione che a palazzo d’Orleans si preoccupino più della forma che della sostanza.Si riferisce al convegno?Lo ha pensato lei.Oltre al Burundi lei è in prima linea anche sulle vicende carcerarie.Il carcere, come recita la nostra Costituzione, dovrebbe rieducare e avviare un percorso di socializzazione per i detenuti. Purtroppo non è così. Basti pensare che in cella ci sono più suicidi che esecuzioni capitali negli Stati Uniti. Il nostro ordinamento carcerario vive, per dirla con un eufemismo, su una enorme ipocrisia: l’ergastolo.In che senso?Quando ero recluso a Rebibbia mi sono laureato in Giurisprudenza ed ero diventato un punto di riferimento di molti carcerati che non potevano permettersi neanche un avvocato. Ricordo la disperazione di sette detenuti, condannati all’ergastolo in Germania, che avevano chiesto e ottenuto di scontare la pena in Italia.Perché erano disperati?Semplice. L’ordinamento tedesco prevede per chi è condannato all’ergastolo una pena di un certo numero di anni che arriva in casi particolari. Questi detenuti arrivati in Italia hanno avuto l’amara sorpresa di dover scontare la pena fino al 9999. Per non contravvenire alle normative europee abbiamo cambiato la formula da “fine pena mai” a fine pena 9999”. Se non è ipocrisia questa, mi spieghi lei che cos’altro è.Pensa, ovviamente, all’ergastolo ostativo?Esattamente. L’ergastolo ostativo è la negazione dei diritti civili. Una persona in cella che sa di poter uscire nel 9999 che speranza ha? Ecco perché siamo costretti a registrare tanti casi di suicidi. Per non parlare di quelli che decidono di mettere fine alla loro vita per le condizioni, in alcuni casi disumane, in cui vivono in cella. Lo testimoniano i fatti di cronaca, così come le condanne che l’Italia subisce sia dall’Europa sia in tribunale.Con lei che è stato esponente politico di primo piano non si può fare a meno di parlare del rapporto tra politica e magistratura.I poteri tra di loro dovrebbero equilibrarsi, da un po’ di anni in Italia si scontrano. L’equilibrio è saltato anche perché il quarto potere, quello dei media, condiziona e influenza pesantemente gli altri.Lei oggi si fida della giustizia?Alla giustizia bisogna affidarsi. E anche fidarsi. Da sempre ho fatto una scelta di vita: i diritti si vogliono, i doveri si ottemperano. Qualche anomalia nella giustizia italiana c’è. Per esempio nel mio caso: alcune componenti della politica hanno utilizzato la giustizia per eliminarmi..Da democristiano vedere oggi Piercamillo Davigo presidente dell’Anm, Francesco Greco, procuratore capo a Milano, quale sentimento le provoca?Come dicevo prima ho fiducia nella giustizia. Ho incontrato nella mia vicenda giudiziaria Davigo in Cassazione e devo dire che la sentenza emessa dal collegio del quale faceva parte è impeccabile. Sono stato prosciolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. È stato respinto il ricorso della Procura generale di Palermo che si era opposta al proscioglimento accordato dalla Corte d’Appello di Palermo, per il principio del “ne bis in idem”: non si può processare un imputato due volte per lo stesso fatto, essendo stato già condannato per favoreggiamento aggravato.Oggi, dopo la prigione, chi è Totò Cuffaro?Ho ritrovato me stesso, la mia famiglia e l’affetto della gente. Ho due figli: una laureata in Giurisprudenza, che si sta preparando per il concorso in magistratura, l’altro si sta specializzando in anestesia al Policlinico Umberto I di Roma. In Sicilia vivo in campagna con mia moglie. Mi interesso dei diritti dei detenuti e del Burundi. L’affetto della gente mi riempe di gioia.Insomma c’è ancora Totò “vasa vasa”, ma il cuffarismo?Oggi nessuno può parlare più di cuffarismo. Direi che siamo passati al cuffaresimo.