Il 22 giugno, 6 giorni prima della strage dell’aeroporto, si è svolta a Istanbul la prima udienza del processo contro, fra gli altri, 2 avvocati. In Turchia non sono rari i casi di processi contro avvocati per reati di opinione.In altri casi la loro attività difensiva viene interpretata dai Pm come “fiancheggiamento” delle organizzazioni eversive cui i loro assistiti appartengono o si presume che appartengano.A luglio prosegue il grande processo contro più di 40 avvocati curdi “rei” di avere richiesto che i processi contro i curdi si svolgano in curdo. A settembre continua il processo contro 26 avvocati dell’organizzazione di assistenza legale Chd.In questo caso i due avvocati sono un uomo e una donna, Ramizan Demir e Aisce Acinikly, curdi, molto giovani, ma già noti come capaci difensori dei diritti umani. Alla data dell’udienza erano da 78 giorni in custodia cautelare in carcere. Anzi, per la precisione, erano già stati posti in custodia cautelare alcuni giorni prima, ma una corte superiore aveva annullato il provvedimento e li aveva rimessi in libertà. Era stato emesso a ruota, quindi, un secondo provvedimento restrittivo, del tipo che anche noi italiani abbiamo conosciuto come “provvedimento a catena”. Al processo si presentano con altri 6 imputati detenuti e un certo numero a piede libero.L’accusa contro gli avvocati, contenuta in una quarantina di pagine del PM e in 70 faldoni di indagine – ignoti agli imputati e ai loro difensori fino a due settimane prima del processo, perché tutta l’inchiesta era stata secretata – li vuole imputati per ciò che i due hanno fatto come difensori, a favore dei loro assistiti. Nulla di particolare, si badi: non si tratta in questo caso di avere fatto da tramite fra fuori e dentro operativamente o cose del genere. Bensì “essere andati troppe volte in carcere per parlare coi loro assistiti”, “avere trovato per i detenuti un medico che li visitasse su richiesta”, “essere rimasti in tribunale fino a ora tarda per ricevere i propri assistiti o i loro parenti” e cose simili. Prova regina contro Ramizan: avere presentato alla Cedu ricorsi contro il governo turco e, in qualche caso, averli vinti. Da qui la qualificazione giuridica dei fatti: partecipazione ad associazione terroristica e propaganda sovversiva. L’associazione terroristica sarebbe il Pkk, come tale definito dalla Turchia e dagli Usa, anzi, più esattamente, un’associazione di sostegno ai detenuti curdi, denominata Tuhad: una specie di “Soccorso Rosso”. Pena base: quindici anni.Non ci sono controlli particolarmente severi né per accedere all’enorme palazzo di giustizia (una grandezza e una forma paragonabile al Colosseo) né per entrare in aula. Ma si respira un clima molto nervoso. Il Presidente non consente che alcuno stia in piedi. L’aula contiene più o meno 200 posti a sedere; ma fra imputati, difensori (formalmente circa 200 – in Turchia non vi è limite al numero di difensori – ma, naturalmente ne parleranno di meno), osservatori internazionali (circa una trentina, di cui 4 italiani) e pubblico assommano a più di quanti non ne possano stare seduti. Il Presidente fa sfollare chi è rimasto in piedi e chiude le porte dell’aula dall’interno perché nessun altro affluisca: alla faccia del processo pubblico! Gli stessi osservatori internazionali vengono relegati nelle ultime file del pubblico, contrariamente a quanto è accaduto in altri processi turchi, dove gli osservatori internazionali di solito sedevano nelle primissime file, ben visibili alla corte.Ha iniziato a parlare per prima l’avvocatessa, poi l’avvocato, ambedue detenuti: colleghi di vaglia, senza artifizi retorici, hanno smontato l’accusa dimostrando che null’altro era loro addebitato se non ciò che rientra pienamente nel mandato difensivo: visite in carcere ai detenuti, trovare assistenza per i detenuti malati, riportare ai parenti quanto oggetto di colloquio, ove possibile, poiché i detenuti, quasi tutti curdi dell’est della Turchia vengono rinchiusi in carceri dell’ovest, lontane mille miglia dalle città di origine e appartenenza. E’ difficile confrontarsi con accuse dal tenore men che generico, ma Ramazan le smonta comunque pezzo a pezzo. Le intercettazioni non avevano dato alcun risultato utile per l’accusa. Poi parlano gli altri detenuti, quasi tutti attivisti di rilievo nelle associazioni per i diritti umani e dunque per questo membri o in contatto con l’associazione Tuhad. Associazioni che operano alla luce del sole e spesso anche con commissioni parlamentari. I non detenuti rinunciano a parlare.Seguono le arringhe dei difensori, non troppo lunghe ma per questo efficaci. Essi ribadiscono l’inconsistenza delle prove, ma anche alcune macroscopiche nullità: intercettazioni durate mesi più delle autorizzazioni del giudice ed altre ancora, fra cui spicca il mancato nulla osta da parte del Ministero della Giustizia per procedere contro gli avvocati, così come, invece, prescrive l’art. 58 della legge professionale. Aveva sostenuto l’accusa che quelle poste in essere dai due colleghi fossero attività che non potevano essere ricondotte al mandato difensivo e dunque il nulla osta non occorreva. I due legali e i loro difensori avevano giustamente obiettato che in buona sostanza si trattava di assistenza ai propri clienti detenuti e che comunque, se si fosse all’interno o all’esterno del mandato, solo un giudizio poteva stabilirlo e dunque il nulla osta era necessario, pena la nullità dell’intera indagine.Viene il momento delle richieste. Il Pm – un ceffo coi mustacchi spioventi, alla Taras Bulba, si sarebbe detto l’unico malfattore in aula – conclude per il rigetto delle nullità, ma per la rimessione in libertà di tutti gli otto detenuti, sia pure disponendo controlli. Si tira un sospiro di sollievo e i cuori si dispongono ad una legittima speranza. I difensori che prendono la parola tagliano un po’ degli argomenti, guadagnandone in efficacia. Il Tribunale si ritira per una ventina di minuti, poi esce disponendo la scarcerazione per due imputati detenuti, che però non sono i due colleghi. Il processo è rinviato al 7 settembre. Lo sconforto è parecchio. Forse, più fra gli osservatori internazionali che fra i colleghi turchi, abituati a un certo andazzo. Uscendo, il grosso schieramento di polizia e camionette accenna ad una carica per sgombrare l’accesso da parenti e amici che gridano slogan, ma si interpongono gli avvocati e tutti defluiscono.Il segnale politico sembra chiaro: due imputati detenuti vengono rimessi in libertà, ma non sono i due avvocati, come tutti potevano aspettarsi. Per loro non viene usata né particolare clemenza né viene riconosciuto il particolare ruolo, quello difensivo, che essi sono chiamati a sostenere. Anzi, si individua in loro gli oppositori, se non addirittura i nemici, utilizzando il solito canone paradigmatico per cui se difendi i terroristi sei anche tu terrorista (e se difendi i mafiosi sei mafioso e via enumerando).Ma cosa significa e a cosa porta questo identificare ogni possibile mediatore come un nemico? L’avvocato, per la natura stessa della funzione svolta è sempre un mediatore e il processo è un luogo di, sia pur parziale, composizione del conflitto (eccetto che nei controprocessi, alla Verger, in cui viene negata l’autorità stessa della giurisdizione): il luogo in cui si prendono in considerazione le argomentazioni delle parti – dei “nemici” – e se ne tiene più o meno conto in sede di sentenza, riuscendo così (nei casi migliori) a giungere a una pronuncia autorevole perché, almeno in parte, condivisa. Naturalmente sappiamo bene che nei momenti di crisi questo schema si offusca oppure può subire distorsioni, anche gravi. Però esso sussiste ed è bene che sussista: l’avvocato è riconosciuto come portatore di diritti e di argomenti contrapposti a quelli dello Stato-Pm, ma gli si riconosce anche, oltre alla razionalità della funzione, anche lo sforzo di fare rientrare nel quadro istituzionale o psicologico o sociologico le posizioni degli imputati. E’ questo il motivo per cui la funzione degli avvocati è tenuta in più o meno alta considerazione in tutti gli stati democratici, e comunque non si intende farne a meno.Quando invece gli avvocati vengono appiattiti sulle posizioni dei loro assistiti e cominciano ad essere perseguiti per la funzione che svolgono, allora inizia un processo di crisi della democrazia o, anzi, meglio, si constata che la democrazia è già in profonda crisi. Lo stato si taglia i ponti alle spalle e rinuncia al ruolo “mediatorio” degli avvocati: rinuncia cioè a fare rientrare nel quadro democratico anche le istanze contrapposte. Lo scontro si accentua e la democrazia ne soffre.Questa è esattamente la cornice in cui oggi si muove la Turchia, che aveva fatto sforzi di democratizzazione (abolizione della pena di morte, riscrittura dei codici, riconoscimento dei diritti dei soggetti prima neppure presi in considerazione, trattative con la minoranza curda ecc.) all’epoca in cui era realistica la prospettiva di ingresso nella Ue e poi, soprattutto a partire dal secondo mandato di Erdogan come primo ministro, è andata ripiegandosi verso un conclamato autoritarismo. La democrazia vi è in sofferenza, se gli avvocati diventano “il nemico” ed in questa stretta persino il terrorismo trova spazi di azione. Non a caso 6 giorni dopo l’udienza che ho raccontato, all’aeroporto di Istanbul i terroristi hanno fatto una strage.*Avvocato, osservatore internazionale per l’unione Camere Penali al processo che vede imputati e detenuti due avvocati