Partiamo da lontano, per arrivare poi alla serata del 19 giugno.Circa cento anni fa (per la precisione 96 anni fa) e cioè nel settembre del 1920, un giovanissimo intellettuale sardo, non ancora trentenne, di nome Antonio Gramsci, guidò nella città di Torino l’occupazione delle fabbriche. Nasce in quei giorni il nucleo che circa una anno dopo fonderà il partito comunista italiano. Del quale lo stesso Gramsci prese la guida nel 1923, al congresso di Lione.La storia del partito comunista ha segnato la storia d’Italia. E’ lunghissima e certamente non è finita nel ‘91 con il cambio del nome al partito. Il nucleo forte del Pci ha continuato ad operare e ha avuto anche una importantissima esperienza di governo, durata molti anni in pieno berlusconismo. Poi è finita. Ed è finita in modo definitivo, appunto, solo la sera del 19 giugno. Quando le televisioni hanno annunciato che una signora non molto conosciuta e dal nome buffo, Chiara Appendino, stava sconfiggendo nel voto di ballottaggio l’ultimo rimasto dei colonnelli di Berlinguer: Piero Fassino, big del partito piemontese dagli anni settanta, segretario del partito (che all’epoca si chiamava Ds) negli anni duemila, e sopravvissuto - unico sopravvissuto tra i leader ex comunisti - allo tsunami renziano che aveva travolto tutti i suoi fratelli (D’Alema, Veltroni, Bassolino, Bersani, Cofferati, e tanti altri).L’uscita dalla ribalta della politica di Fassino, non ancora settantenne, è l’atto di morte del Pci. Il Pci è nato a Torino, e a Torino è morto.Ne sentiremo la mancanza?Dipende. In realtà la fine-fine del Pci chiude un’epoca che dentro di se non ha solo il Pci. Ha quel soggetto, gigantesco, complesso e misterioso, che nel ‘900 si chiamava movimento operaio, e che era composto da partiti, sindacati, gruppi vari, ma che cresceva sostenuto da due pilastri - uno più grande e conservatore, uno più esile e moderno - e cioè il Pci di Togliatti e Berlinguer e il Psi di Nenni e Craxi. Dentro il movimento operaio le differenze e le lotte intestine erano state sempre molto accese. Berlinguer e Craxi non si potevano vedere. E però nella storia di questi due partiti, e anche nella lotta furibonda tra loro, sta la storia del grande riformismo italiano. Specialmente di quello che negli anni sessanta e poi negli anni settanta, ha prodotto riforme.Il Psi è stato spazzato via da Tangentopoli, più di venti anni fa. Il Pci ha boccheggiato, resistito, veleggiato, corretto rotta, poi è entrato in agonia ed ora è morto. E del riformismo italiano non è rimasta più traccia. Il mar s’è sopra lui richiuso, senza lasciar galleggiare neanche un piccolo relitto.Questa è storia. C’è poco da discutere su questa storia: è così. Il 19 di giugno si è conclusa la vicenda travagliata del riformismo classico. Che fuori dall’asse Pci-Psi aveva solo la piccola scialuppa radicale, la quale - esterna al movimento operaio - spingeva sul piano del riformismo civile, fiancheggiando le due grandi navi che percorrevano la rotta delle riformismo economico-sociale. E guidandole a grandi conquieste: divorzio, aborto. Ma anche la scialuppa radicale, senza il suo nocchiero, scomparso poche settimane fa, sembra dispersa.Restano due domande. La prima è: perché il riformismo classico è morto? La seconda riguarda il futuro: potrà nascere un nuovo riformismo?Il riformismo classico credo che sia morto per una ragione molto semplice. Da troppo tempo non produceva più riforme. Può sopravvivere un melo che non dà più le mele, un vigneto che non fa l’uva? Il riformismo classico aveva avuto una grande stagione con il primo centrosinistra e poi con il governo di unità nazionale. Aveva riformato la scuola e poi l’università, aveva varato lo statuto dei lavoratori, aveva nazionalizzato l’energia elettrica, aveva introdotto il divorzio e la scala mobile (cioè l’aumento automatico degli stipendi e dei salari e delle pensioni), aveva aumentato i salari nelle fabbriche, aumentato tutti i diritti sindacali, cancellato l’analfabetismo. E tutto questo sulla spinta dell’entrata del Psi di Nenni nei governi di Moro e poi di Rumor negli anni sessanta. Dieci anni dopo aveva riformato la sanità, gli affitti, i patti agrari, la psichiatria, aveva introdotto l’aborto e cambiato lo stato di famiglia e legalizzato l’obiezione di coscienza,, sotto la spinta forte del Pci di Berlinguer, e mentre la società civile - eravamo alla fine dei settanta - subiva la pressione della lotta armata. L’Italia, tra i paesi europei e occidentali, era stata la più avanzata sul piano del riformismo sociale. Ed era riuscita a sviluppare il welfare e la filosofia riformista mentre si espandeva, aumentava la sua ricchezza e riduceva le diseguaglianze.Dopodiché...Provate a elencarmi le riforme che negli anni successivi sono state introdotte per aumentare i diritti o per favorire i ceti più deboli. Non ce ne sono. Già nel corso degli anni ottanta, e poi nei due decenni successivi, non solo il riformismo - inteso come gradualismo nelle conquiste sociali, secondo gli insegnamenti dei vecchi padri socialisti, come Turati e poi Nenni - è sparito, ma addirittura ha iniziato a cambiare segno. In politologia si è iniziato a parlare di riformismo pensando a una corrente politica che tendeva a modificare le riforme del ventennio 60-70, “invertendole” e rovesciandone il senso. E questa tendenza è diventata clamorosa tra la fine del secolo e nel primo decennio del 2000 coi governi di centrosinistra, che finalmente avevano portato sulla tolda del comando gli eredi del Pci, e che iniziarono a ridurre i diritti dei lavoratori, a legalizzare il precariato, a contenere le pensioni, a togliere potere ai sindacati, a liberalizzare l’economia e ad aumentare la potenza del mercato e la sua supremazia nei confronti dello stato.E’ in quegli anni che la bandiera del riformismo, che aveva modificato il suo stesso Dna, è passata dalle mani del movimento operaio a quelle dei partiti liberali. A buon diritto. Perché il nuovo riformismo aveva perduto ogni carattere socialdemocratico e aveva assunto un aspetto limpidamente liberale. Più precisamente: liberista.Il movimento operaio e i suoi partiti sono scomparsi perché da molto tempo avevano perduto ogni loro funzione. E di questo è difficile incolpare Renzi, che all’epoca dei primi governi Prodi, e D’Alema, e Amato - quando il blairismo era indicato come la grande novità per la sinistra moderna - era un ragazzino e al massimo andava in Tv a rispondere ai quiz.Poi c’è la seconda domanda: può nascere un nuovo riformismo?Qui le cose sono molto complicate, perché non si può ragionare seguendo la storia ma bisogna provare ad immaginare il futuro. Un nuovo riformismo, inteso some strategia di aumento e non di contenimento dei diritti, per rinascere deve trovare una casa. In questo momento, in politica, esistono fondamentalmente tre case possibili (escluse quelle dei partiti più reazionari). Il centrosinistra, il centrodestra e i Cinque stelle. Il centrodestra, se sceglie per se una collocazione moderna e moderata, può collaborare a imprese riformiste del centrosinistra, come ha fatto altre volte nella storia d’Italia (le riforme, delle quali parlavamo, degli anni sessanta e settanta sono state, quasi tutte, realizzate con la partecipazione decisiva del centro moderato e cioè della Democrazia Cristiana), ma il centro destra, per definizione -per vocazione - non può essere il motore del riformismo classico.Il centrosinistra, francamente, non sembra attrezzato. Il renzismo appare più una ideologia della “stabilità” che una aspirazione alle riforme. Le riforme immaginate da Renzi (essenzialmente due: abolizione del Senato e abolizione dello statuto dei lavoratori) tendono semplicemente a rendere più governabile il sistema politico e il sistema economico, non tendono a modificare, a favore dei più deboli, i rapporti sociali ed economici. E del resto, la cosiddetta sinistra del partito si porta sulle ali un bel carico di piombo. E cioè la sua storia: la storia di un gruppo dirigente che nell’epoca dei berlusconismo ha rinunciato a qualunque ambizione socialdemocratica e ha scelto la via del liberismo, seppure temperato.Restano i grillini. Loro si presentano come il nuovo. Però, poi, gli vai a chiedere: cosa volete? E loro sanno rispondervi solo ripetendo fino allo sfinimento quella unica parola lì: “onestà”. Gridavano così l’altra sera, per gioire della vittoria di Raggi e Appendino. Non chiedevano, né tantomeno promettevano riforme. Non gridavano Uguaglianza, e nemmeno Libertà. Addirittura qualcuno gridava - erano molti, per la verità - Davigo, Davigo, e cioè invocavano un governo dei giudici e della repressione.I grillini hanno un grande pregio, che potrebbe anche aprire la strada a un nuovo riformismo: l’indipendenza. Nel senso che non sono condizionati da nessun potere esterno, che se ne infischiano delle potenze, delle lobby, dei padronati. Però c’è una dote che gli manca: la cultura politica e quindi il programma politico. Gli manca un progetto di società, libera e più giusta socialmente di quella attuale. Anche la loro proposta - interessantissima - di reddito minimo garantito per tutti, che potrebbe essere la spina dorsale di un nuovo riformismo, per ora sembra solo uno slogan, propaganda. E’ molto difficile che un nuovo riformismo possa nascere da un movimento privo di storia e di cultura politica, e che conosce un solo imperativo: non rubare.E allora?E’ la grande incognita che sarà al centro della politica nei prossimi mesi. Il problema della politica italiana non è se Renzi regge o cade. Non è vero che non c’è alternativa a Renzi. Renzi è il potere, e il potere ha sempre un’alternativa. Il rischio che il “seggio” resti vuoto è pari a zero. La domanda è se il riformismo è morto o no. E quindi se abbiamo una speranza di modernità, in questo paese - perché non esiste modernità senza riformismo - o se stiamo per entrare in un tunnel reazionario.