Non è certo un mistero: i magistrati non amano le impugnazioni ed in particolare l’appello. Le ragioni sono diverse. I gravami sottendono inevitabilmente una critica alla decisione. Le critiche sono difficili da accettare. L’appello, poi, mette nelle mani delle parti il processo. La difesa delimita i poteri di cognizione e di decisione del giudice. L’iniziativa delle parti determina la sospensione degli effetti della decisione, ne rinvia l’esecuzione, con tutte le sue implicazioni. Per queste ragioni il fascismo nel varare il codice Rocco nel 1930 tentò di contenere il ricorso al giudizio di secondo grado. Non ci riuscì, dovendo riconoscere che appartiene alla cultura giuridica del nostro Paese. Per circoscrivere questa situazione la magistratura usa vari mezzi: inammissibilità delle impugnazioni, vizi formali, decadenze, filtri processuali, oneri a carico delle parti sia di allegazione sia di dimostrazione delle ragioni critiche.A<+tondo_box> volte, il ragionamento si fa più sottile: incompatibilità del modello processuale accusatorio, esigenze di efficienza del sistema, durata ragionevole del processo.Si tratta, al contrario, di qualcosa di insopprimibile, perché legate al senso profondo della giustizia, non potendosi escludere che la sentenza di primo grado sia frutto di errori o sia viziata da invalidità. Del resto, l’elevato numero di decisioni riformate lo conferma.Non era mai capitato di leggere – contro il giudizio d’appello – quanto sostenuto dal dott. Caselli, sul Fatto Quotidiano. Al di là di un velenoso riferimento a esigenze corporative (dei magistrati?, degli avvocati?), comunque inopportune in un dibattito che abbia un minimo di scientificità, si sostiene che mancando il personale amministrativo, piuttosto che fare nuove assunzioni sarebbe meglio eliminare l’appello. Argomentazioni, così grossolane, pur provenienti da una personalità che ha attraversato – significativamente – la vita giudiziaria – e non solo – di questo Paese sono atti stupefacenti da non poter essere contestate con argomentazioni di diritto, di natura costituzionale e deducibili da disposizioni sovranazionali. Inutili i riferimenti alle esperienze di altri Paesi, per la difficoltà della comparazione. Basterebbe ricordare la “levata di scudi” della Magistratura, contro la compressione dell’appello del p. m. introdotto dalla legge Pecorella.Ciò che non riuscì al fascismo, non riuscirà neppure oggi.Battuta per battuta, perché non può che essere così; mancano gli infermieri; chiudiamo gli ospedali!* Giorgio Spangher, triestino, 72 anni. Ha moltissimi titoli accademici. Tra gli altri, titolare della cattedra di Procedura penale a Sassari, a Trieste e poi alla Sapienza di Roma dove è stato anche preside della facoltà di Giurisprudenza. Ha collaborato con diverse commissioni governative ed è stato membro del Csm