«La vera separazione delle carriere dovrebbe essere quella tra magistrati e giornalisti»: la battuta sarebbe stata folgorante e puntuale comunque. Essendo stata pronunciata da uno che se ne intende, Luciano Violante, diventa proverbiale.Il caso italiano si presenta in effetti come una variante probabilmente unica di degenerazione nel corretto rapporto tra i poteri dello Stato in una società democratica. Se praticamente tutti gli studi moderni accostano ai tre poteri codificati da Montesquieu quello dell’informazione, e non per esempio quello economico, è perché all’informazione spetta, nei sistemi democratici, il compito di sorvegliare sia sull’operato dei singoli poteri sia sulle eventuali invasioni di campo. L’Italia della seconda repubblica è stata segnata, da un lato, da un conflitto inaudito per profondità, dimensione e durata tra il potere politico e quello giudiziario, dall’altro da un massiccio schieramento combattente dell’informazione a sostegno del secondo e contro il primo.Almeno fino al 2011, cioè sino alle dimissioni dell’ultimo governo regolarmente eletto, i media hanno “sorvegliato” sull’operato pubblico e privato dell’esecutivo e in particolare del suo capo con una attenzione ossessiva e maniacale, non priva di aspetti propriamente persecutori. Ogni tentativo da parte dell’esecutivo o del legislativo di impicciarsi negli affari del potere giudiziario, a volte con intenti invasivi ma in altre occasioni al puro fine di colmare lo squilibrio prodottosi, è stato denunciato, stigmatizzato, ostacolato e in buona parte proprio grazie allo schieramente militante dell’informazione alla fine e debellato. I media hanno invece serrato con altrettante costanza e determinazione occhi e orecchie su qualsiasi sconfinamento del potere giudiziario dai propri limiti istituzionali e dai vincoli di un corretto operare.Il sodalizio dura da tanto che viene quasi spontaneo immaginare che sia così da sempre. Invece no. Per tutta la fase fiorente della prima Repubblica il sistema dell’informazione ha assolto, nel complesso, alla propria funzione di controllo, sorveglianza. C’è un evento preciso che segna la fine della relativa "neutralità" dell’informazione, a metà di quel triennio di solidarietà nazionale che è all’origine di quasi tutti i guasti dei decenni successivi: il sequestro di Aldo Moro. Nel corso dei 55 giorni, per la prima volta, l’informazione scelse in modo quasi unanime non di stare dalla parte dello Stato contro il partito armato, come era ovvio e sacrosanto che fosse, ma di impegnarsi nello scontro anche a costo di violare sistematicamente le proprie stesse regole.Nei giorni del sequestro, l’intero apparato mediatico, con le sole eccezioni del Manifesto, Lotta continua e Radio Radicale, negò l’autenticità delle lettere dal carcere del sequestrato. Non che non fossero di suo pugno, questo era pacifico. Solo che il poveretto era di fatto «impazzito» e nulla di quel che scriveva andava pertanto riconosciuto come realmente frutto del suo pensiero. Non meritava pertanto neppure di essere discusso o preso in considerazione.Da quel momento l’escalation fu rapidissima e impressionante. L’anno dopo, nel quadro dell’inchiesta 7 aprile, furono arrestati, come ideatori del sequestro Moro, i principali leader dell’Autonomia operaia e con loro anche il giornalista dell’Espresso Pino Nicotri, che collaborava anche con Repubblica. Quando le accuse caddero gli inquirenti si limitano a modificarle, ripetendo il gioco a più riprese. La libera stampa non trovò nulla da ridire sull’operazione e restò incrollabilmente a sostegno dell’inchiesta. Nicotri invece, a cui L’Espresso aveva garantito un’ottima difesa, fu invece scarcerato dopo tre mesi.Ad attenderlo fuori dal carcere il giornalista trovò una macchina che, senza neppure passare da casa, lo portò da Eugenio Scalfari. Il direttore lo invitò caldamente a non prendere le difese dei coimputati perché «questa storia del 7 aprile sta molto al di sopra delle nostre teste». Nicotri rifiutò e il suo rapporto con il quotdiano liberal terminò lì una volta per tutte.Un anno dopo, nel dicembre 1980, la preoccupazione di “non fare il gioco dei terroristi” convincerà i direttori di quasi tutti i giornali a non pubblicare l’appello la cui diffusione era il prezzo chiesto dalle Br per liberare il magistrato rapito Giovanni D’Urso. Lo salveranno i radicali, mettendo a disposizione il loro spazio elettorale in tv per leggere il documento brigatista.Sono solo esempi tra innumerevoli altri. Entrambi i passaggi fondamentali destinati a incidere per decenni sul percorso della storia italiana si compiono negli anni dell’emergenza e in nome dell’emergenza. La magistratura si incarica, con il beneplacito della politica, di supplire al vuoto della politica stessa e di gestire su ogni fronte, incluso quello legislativo, la lotta al terrorismo. L’informazione sigla un patto di ferro con la magistratura inquirente, venendo meno a tutte le sue regole essenziali pur di sostenerla in quella lotta.Una volta finita l’emergenza e uscito di scena il terrorismo, però, sarebbe stato possibile invertire la direzione e indirizzarsi verso un ritorno alla normalità, sia sul fronte dell’equilibrio istituzionale sia su quello di un’informazione meno parziale. Solo che, all’uscita dagli anni di piombo, il potere politico era ancora più debole di quanto non fosse stato negli anni ‘70 e quello giudiziario, sia pur scontando divisioni al proprio interno, non aveva alcuna intenzione di rinunciare alla postazione conquistata. Al bivio, la flotta dell’informazione ebbe pochi dubbi e scelse di mantenere intatto l’asse con i pm, in nome di una emergenza diventata infinita, nella quale cambiavano solo i conntotati del “pericolo mortale” di turno.È probabile che quella scelta di campo definitiva sia stata fortemente condizionata dal legame che si era creato tra pm e cronisti negli anni roventi del terrorismo, quando i medesimi inquirenti si erano imposti come fonte principale, dunque dotata di un fortissimo potere di ricatto, a cui i giornalisti attingevano e quando si era stabilito un legame tra magistrati e professionisti dell’informazione molto vicino a quel chei togati amano definire “sodalizio”.Il percorso si delinea con chiarezza nel caso giudiziario più esemplare del decennio ‘80: l’arresto per camorra del popolarissimo presentatore Enzo Tortora nel 1983. I media, con rarissime eccezioni fecero a gara nell’esaltare gli inquirenti: «Scrupolosi, seri, prudenti e stimati» per Il Giorno, addirittura «esemplari per zelo e disprezzo del rischio» secondo il Corriere della Sera. Per il presentatore, invece, il massacro di immediato. Secondo Il Tempo, «rivela una calma addirittura sospetta al momento dell’arresto», per Il Messaggero «desta qualche sospetto quando fa di tutto per nascondere la sua vita privata». La star Camilla Cederna era convinta della colpevolezza soprattutto perché le trasmissioni di Tortora non le erano mai piaciute, e poi perché «se un uomo viene catturato in piena notte è segno che qualcosa di grave ha commesso».Il caso Tortora fu anche il vero esperimento pilota di una pratica diventata poi merce comune. I giornali bombardarono quotidianamente i lettori con verbali di interrogatorio, notizie riservate e annunci di nuove presunte scoperte a carico dell’imputato. Ma se l’esercito dei cronisti, da Novella 2000 al Corrierone suonava la stessa musica, tra i commentatori il quadro era più equilibrato. C’erano parecchie autorevoli penne che avanzavano dubbi sempre più forti sui metodi adottati dai pm: Enzo Biagi, Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Rossana Rossanda, Walter Vecellio. Non è una circostanza casuale: è proprio in quegli anni ‘80 che i cronisti iniziano a dipendere sempre più dalle notizie passate dagli stessi inquirenti, dai verbali, dagli interrogatori, dalle intercettazioni. Tra i magistrati inquirenti e i cronisti si cementa così una reciproca dipendenza che sconfina nella complicità.La crepa nella compattezza dello schieramento dell’informazione a sostegno delle toghe si chiuderà solo con tangentopoli. Non solo si ripeterà lì, in forma macroscopica, la stessa campagna di sostegno già dispiegata nel caso Tortora. I media faranno direttamente scudo alla magistratura ogni volta che, nei due anni dell’inchiesta, la politica tenterà di frenarne l’impeto. Dal decreto Conso, fatto ritirare nel marzo 1993 proprio dalla reazione violentissima (e concordata dai principali direttori) delle testate, alla levata di scudi contro il cosiddetto “decreto salva-ladri” varato dal governo Berlusconi nel luglio 1994, giornalisti e magistrati formarono negli anni di Mani pulite un fronte unico. Tanto da giustificare la decisione dei principali giornali di pubblicare nello stesso giorno editoriali molto simili e palsemente concordati che alludono tutti a una “rivoluzione italiana” fatta proprio da magistrati e giornalisti.In parte a spiegare la scelta dell’informazione valgono le considerazioni precedenti sulla dipendenza dei giornalisti dalle informazioni concesse dalle toghe, tanto più importante dato l’immenso rilievo mediatico dell’inchiesta. Ma entrarono allora in campo altre considerazioni. L’inchiesta, come ha poi confermato lo stesso Di Pietro, «colpiva duro i politici ma salvava gli imprenditori, considerandoli vittime» invece che co-responsabili a pieno titolo del sistema delle tangenti. Gli editori, che erano poi quegli stessi industriali, avevano tutto l’interesse a difendere un accordo che li metteva al riparo. I direttori e gli editorialisti, pur avendo sempre difeso il sistema dei partiti, speravano che l’inchiesta rendesse il sistema più efficiente, assolvendo le imprese dall’obbligo di trattare con la politica, e di pagarla.La “rivoluzione”, come è noto, ebbe esito imprevisto, ma il modello definito una volta per tutte allora, poi rinsaldato dall’ascesa di un Berlusconi che i giornalisti e i loro editori hanno sempre tollerato di mala voglia, non è più stato scalfito. Giornalisti e magistrati? Due corporazioni, una sola carriera.