«Il referendum riguarda una grande riforma, visto che tocca diverse delle regole che disciplinano il funzionamento della nostra democrazia. Per questo il giudizio dei cittadini non dovrebbe essere influenzato dalle vicende contingenti della politica». Esordisce così Franco Bassanini, già professore di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma, quattro volte ministro per la Funzione Pubblica nei governi Prodi e D’Alema e tra i primi firmatari del manifesto per il «sì» al referendum costituzionale.Eppure è innegabile che l’eco delle amministrative toccherà anche il dibattito sul voto referendario.Io credo che il piano delle elezioni amministrative e quello del referendum debbano essere tenuti distinti. Nelle comunali i cittadini hanno espresso un giudizio sulle condizioni della loro città e su chi l’ha governata negli ultimi anni. Dove il giudizio era negativo, è prevalsa la voglia di cambiare: l’esito del primo turno a Roma lo rappresenta molto bene. Non è bastato che, sia a destra che a sinistra, siano stati scelti due candidati come Giachetti e Marchini, non coinvolti con le amministrazioni precedenti. O che Giorgia Meloni sia stata politicamente molto abile nel farsi percepire come diversa ed estranea all’amministrazione Alemanno. La voglia di un cambiamento netto ha travolto tutto, almeno al primo turno. Si spiega così, credo, il successo di Virginia Raggi e del Movimento 5 Stelle.Il premier Matteo Renzi crede che questo stesso voto “anticasta” che lo ha penalizzato alle amministrative lo premierà con il sì al ddl Boschi, perchè la riforma costituzionale riduce concretamente i privilegi alla politica. Condivide?Parzialmente. Renzi ha ragione quando sostiene che nella riforma ci sono disposizioni che riducono i privilegi alla casta politica, a partire dalla riduzione del numero dei parlamentari o dalla soppressione del Cnel. Ma, se il voto di domenica fosse solo un voto anticasta, i 5 Stelle avrebbero vinto anche a Milano, Bologna e Napoli. A Roma, credo che il boom di Virginia Raggi nasca soprattutto dalla voglia di cambiare rispetto alle ultime amministrazioni. A Torino, invece, c’è stato sì, forse, un voto antiestablishment. Fassino è in qualche modo l’ espressione, valida e rispettabile, della classe dirigente torinese, e in questo caso il voto a Appendino può essere letto in chiave di una sfida a questo establishment. Ma la riforma costituzionale contiene molte altre disposizioni e non è scontato che all’elettore anticasta vada bene tutto il pacchetto.Il referendum rimane polarizzato sulla figura di Renzi, che se ne è fatto garante e a cui ha legato le sorti del suo governo. La convince questa personalizzazione del dibattito?Partiamo da un presupposto: le riforme elettorale e costituzionale sono fin dall’inizio parte essenziale del programma del governo Renzi. Lo stesso presidente Napolitano, del resto, aveva alla fine accettato una riconferma al Quirinale ponendo come condizione che quel tempo, seppur breve, servisse a approvare una riforma delle nostre istituzioni democratiche. Non è fuori luogo, dunque, che Renzi leghi al referendum la permanenza in carica del suo governo. Ma occorre capire che a ottobre si vota pro o contro una riforma fondamentale, non per mandare o no a casa il premier. I Governi si mandano a casa col voto nelle elezioni. Se fossi un leader di quelle opposizioni che nel merito non sono contrarie alla riforma, tanto che l’hanno votata in prima lettura, voterei sì alla riforma e chiederei invece a Renzi di dimettersi subito dopo, indipendentemente dall’esito del referendum, per verificare con nuove elezioni se ha o no una maggioranza nelle urne.Lei, che si è immediatamente espresso per il sì, è convinto al cento per cento del contenuto di questa riforma?Ci sono diversi dettagli che non mi convincono, ma quel che conta è che le scelte di fondo sono giuste e soprattutto non più rinviabili. Mi riferisco al superamento del bicameralismo paritario, alla semplificazione e accelerazioni dei procedimenti di decisione democratica e alla revisione della distribuzione dei poteri tra Stato e Regioni. Si tratta di scelte da lungo tempo largamente condivise sia nel mondo accademico che in quello politico. Se la riforma passa, sarà possibile, anzi doveroso, correggere i dettagli giustamente criticabili; se non passa, per vent’anni e più ci terremo una democrazia mal funzionante.Eppure uno dei punti più criticati, anche dai suoi colleghi firmatari del manifesto per il no, riguarda proprio l’impronta statalista della riforma.La riforma del 1997 che porta il mio nome introdusse, con l’autocertificazione e altre innovazioni, il federalismo amministrativo; quindi non posso certo essere definito un centralista. Ma la successiva riforma del titolo V del 2001, che ha ampliato i poteri legislativi delle Regioni, è andata oltre il modello dello Stato federale. Ha, per esempio, eliminato quella “clausola di supremazia” che è prevista in tutti gli Stati federali, dagli USA alla Germania, e che consente al Parlamento federale di legiferare anche nelle materie di competenza regionale, qualora sia necessario per tutelare diritti fondamentali dei cittadini o interessi generali di tutta la Federazione. In più, ha moltiplicato le sovrapposizioni tra competenze statali e competenze regionali anche in materie che non possono non avere una disciplina unitaria, come l’energia, le telecomunicazioni, le grandi infrastrutture.Anche l’idea di un Senato federale, i cui componenti sono gli amministratori di comuni e regioni, è stata molto criticata.Riducendo i poteri legislativi delle Regioni, è giusto dare alle rappresentanze regionali uno strumento per partecipare alla formazione delle decisioni legislative nazionali. In realtà, quasi tutti i fautori del no non criticano l’idea di un Senato federale, ma il metodo di scelta dei suoi componenti, salvo poi dividersi sulle possibili soluzioni alternative. Pochi criticano la scelta di fondo, ovvero l’abolizione di un Senato eletto direttamente e il superamento del bicameralismo perfetto. Il metodo di scelta dei futuri senatori è certo uno di quegli elementi da aggiustare strada facendo, se la riforma passerà. Un primo strumento c’è già, la legge per regolare l’elezione dei nuovi senatori.Eppure il bicameralismo paritario, in cui Camera e Senato hanno sostanzialmente uguali funzioni, rispondeva all’esigenza dei Costituenti di introdurre una forma di garanzia del processo democratico. Questo è tenuto in conto nella riforma?Non mi pare che il funzionamento delle nostre istituzioni in questi anni sia stato privo di difetti, e infatti una parte della Costituzione è ancora inattuata, come per esempio il diritto al lavoro previsto dall’articolo 4. Ma c’è di più. I costituenti del 1946 hanno scritto un testo che rispondeva alle esigenze del tempo. Ma il contesto à cambiato. Globalizzazione e tecnologie digitali impongono tempi di decisione molto più rapidi del passato. Ricordo che la crisi del 1929 ci mise un anno a trasferire i suoi effetti dagli USA in Europa. Oggi, il fallimento di Lehman Brothers o un attentato alle Torri Gemelle provoca in pochi minuti ripercussioni su tutta l’economia mondiale e richiede dai governi e dai parlamenti contromisure immediate. Se non si decide rapidamente, deciderà al posto nostro chi con la democrazia non ha nulla a che fare, come le agenzie di rating, le grandi banche d’affari e i grandi fondi di investimento. La riforma punta a velocizzare l’iter di approvazione delle leggi, garantendo una tempestività che è necessaria ad ogni stato democratico.La Costituzione italiana, allora, forse non è davvero la più bella del mondo?Continua ad esserlo, se con quelle parole ci si riferisce alla prima parte della Carta, quella che riguarda i diritti, i doveri e le libertà fondamentali di tutti. Diritti che, purtroppo, spesso non vengono in concreto assicurati a tutti, proprio perchè la seconda parte della costituzione, quella sull’ordinamento della Repubblica, fatica a funzionare. Aggiungo anche che i costituenti hanno scritto un testo che, ovviamente, non teneva conto di tutte le garanzie e i vincoli che oggi derivano dai trattati europei e internazionali e dalle direttive europee. A tutela dei propri diritti, oggi, si può ricorrere alla Corte di Lussemburgo o di Strasburgo; e grazie all’uso che il Parlamento fece della clausola costituzionale di cessione di sovranità in favore delle organizzazioni sovrastatali, oggi molte garanzie stanno a Bruxelles, non in un intollerabile complicazione dei processi decisionali nazionali.Nel dibattito politico si sono espresse diverse voci, non ultime quelle dei magistrati. Lei lo trova legittimo?Come cittadini, i magistrati hanno pienamente il diritto di esprimere giudizi sulla riforma, anche con l’autorevolezza che a ciascuno di loro deriva dalle sue competenze e esperienze. Ognuno parla anche alla luce della sua storia, io come professore di diritto costituzionale, ma anche come persona che ha passato trent’anni nelle istituzioni, un magistrato come giurista e interprete delle leggi. Ma nessuno può esprimere un giudizio - e nessuno che io sappia lo ha espresso - a nome della Magistratura, che è un potere dello Stato chiamato a applicare la Costituzione e le leggi, non a approvarle o riformarle. Questo sì, se qualcuno volesse farlo, sarebbe illegittimo.