Contano più le parole o i fatti? Nella vita i secondi. In politica a volte hanno più peso le prime. Perché "sono come macigni", diceva Giovanni Spadolini. E ti inchiodano. Per capirci. Se guardiamo ai fatti, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini chiudono la campagna elettorale amministrativa separati, ciascuno per proprio conto. Il contrasto diventa ancora più stridente se si valuta che, per esempio a Milano, entrambi appoggiano lo stesso candidato. E che l’identico appoggio avviene nella medesima piazza, là dove Stefano Parisi terrà il comizio finale.Sono fatti. Per tutta la campagna elettorale i due leader praticamente non si sono parlati. Ed è un fatto pure che Berlusconi abbia ammesso di aver cambiato cavallo a Roma passando da Bertolaso a Marchini per ripicca contro il capo leghista che non aveva, a suo giudizio, rispettato i patti. Ritorsione e non rispetto degli accordi. Altri due fatti.Si potrebbe chiudere qui, e sarebbe l’epilogo amaro di una storia scritta da due nati per non intendersi.Poi però ci sono le parole. Che a loro volta diventano fatti. Le parole di Silvio sono significative. Ed è paradossale che gli accada di dire cose piuttosto impegnative ma delle quali i media si accorgono in ritardo perché di primo acchito le snobbano. O le deridono. È il prezzo che si paga alla perdita di appeal elettorale. Poi però siccome le parole restano, producono interesse. Per esempio Berlusconi ha detto e ripetuto che se al referendum costituzionale vince il No il passo successivo sarà un governo di unità nazionale con il Pd. L’ex Cav quella cosa l’ha detta per un motivo preciso. Anzi due. Il primo, perché in quel caso tornerebbe centrale alla grande. Il secondo, più insinuante, serve a smontare l’impianto mediatico di Renzi, quel "dopo di me il diluvio" che può mettere paura a tanti: politici, imprenditori, analisti finanziari, cancellerie internazionali, ecc. Se vince il No, non ci sarà la catastrofe, né’ l’Italia finirà a gambe all’aria. È il solito "ghe pensi mi" modello Arcore che tanto fascino ha avuto negli anni scorsi. Oggi è appannato, vero. Ma a certe condizioni può ancora funzionare.Tuttavia a questo punto il gioco si rovescia e dalle parole torniamo ai fatti. Prima delle amministrative, Berlusconi e Salvini hanno scorazzato in due diverse praterie. Dopo, sono obbligati a reincontrarsi per scender in trincea contro la riforma costituzionale dell’inquilino di palazzo Chigi. Se vincono, tornano a dividersi perché Salvini quel governo agognato da Silvio lo considera il male assoluto.Fatti, parole. Parole, fatti. E allora? Allora torniamo alle parole. A quelle dette, stavolta, da uno che non duetta ma gioca nell’altra metà campo. A quel cortese e velenoso sussurro soffiato da Angelino Alfano, ministro degli Interni, al segretario della Cei, monsignor Galantino. Niente hotspot, cioè centri di accoglienza, dei migranti in mare, sulle navi, aveva attaccato il rappresentante dei vescovi. Bocciando così l’ultima idea del titolare del Viminale per bloccare l’esodo migratorio dalle coste libiche. «Capisco la missione di Galantino. Ma non possiamo accogliere tutti i migranti che arrivano», ha tagliato corto Alfano.Fermiamoci un attimo. Queste quelle del leader del Nuovo centrodestra più che parole sono paletti che delimitano un perimetro. Precisamente il perimetro di un centrodestra che sul tema più delicato e difficile a livello europeo ritrova una identità di vedute. E perciò di azione. Quel "non possiamo accoglierli tutti" a ben vedere delimita gli spalti all’interno dei quali possono trovare posto in tanti: appunto dai destra-destra salviniani fino ai centristi alfaniani. Ovviamente passando per Berlusconi. Lì dentro, insomma, ci sta il Ppe italiano più un pezzo del lepenismo tricolore. Rocco Buttiglione ha detto che il centrodestra rinnovato deve nutrirsi di contenuti chiari e stringenti. L’identità di vedute sull’immigrazione o parte di essa, può diventare il collante di un nuovo amalgama quando si voterà alle politiche? Forse. O forse no. Per ora sono solo parole. Poi toccherá ai fatti.