Matteo Renzi compulsa con soddisfazione l’elenco di altre 200 personalità (scienziati, docenti universitari, scrittori, registi) che hanno sottoscritto un appello per il Sì al referendum. Oltre che compiacersi, il premier ne trae il succo politico: macché personalizzazione dell’appuntamento, piuttosto si tratta di «una gigantesca sfida popolare che vuole togliere le istituzioni dalla palude degli inciuci e dei veti incrociati». Concetto urticante quanto basta.Con buona pace di tutti, però, la personalizzazione è nei fatti, anzi negli impegni: precisamente in quello solennemente preso dal capo del governo di ritirarsi dalla politica in caso di vittoria del No. Se qualcuno aveva dei dubbi, ci ha pensato proprio ieri il ministro dell’Economia a spazzarli via: «Se un capo del governo va a casa, anche il governo va a casa». Insomma si tratta di un crocevia fondamentale, e questo l’hanno compreso tutti. Quel che ancora va disvelato è il percorso che deve portare all’apertura delle urne referendarie. Questione che sarebbe sbagliato credere riguardi ghirigori burocratici o cavilli di azzeccagarbugli. Al contrario, riveste una importanza non trascurabile ai fini del risultato finale.Vediamo. Che si voti ad ottobre, è pacifico. Il punto è: quando? Come è noto, la Corte Costituzionale ha fissato per martedì 4 ottobre la pronuncia sull’ammissibilità delle richieste abrogative dell’Italicum, la nuova legge elettorale che è appiccicata come un francobollo alla riforma del Senato. Un giudizio di ammissibilità non entra nel merito: stabilisce solo se la procedura referendaria può andare avanti o deve bloccarsi. Ma il valore politico della decisione della Corte è fin troppo palese, in particolare se visto alla luce del precedente del Porcellum, amputato in più parti dalla Consulta per vizi di costituzionalità. Spifferi provenienti da palazzo Chigi hanno fatto intendere che Renzi sarebbe solleticato da un blitz in linea con il suo temperamento («Se sono arrogante? Vero, è un mio limite» ha spiegato agli studenti del Boston Consulting): piazzare il referendum costituzionale domenica 2 ottobre, ossia quarantott’ore prima della riunione della Corte. Possibile? A parte gli stati caratteriali dei leader, allo stato la risposta è molto più no che sì. Per un ventaglio di ragioni: alcune di opportunità, altre di calendario, altre ancora di convenienza politica. Le ragioni di calendario sono le più semplici. La legge prevede che la richiesta di referendum che si basa sull’articolo 138 della Costituzione deve essere presentata dopo tre mesi dalla pubblicazione della riforma sulla Gazzetta ufficiale. Il voto definitivo della Camera c’è stato il 12 aprile, la pubblicazione tre giorni dopo: dunque si va filati al 15 luglio. Poi ci sono i due mesi entro i quali il capo dello Stato deve indicare la data di svolgimento del referendum; data che deve prevedere dai 50 ai 70 giorni di campagna elettorale. Uno sguardo anche sommario al calendario fa capire non solo che per votare il 2 ottobre bisognerebbe bruciare i tempi ma che il confronto tra i comitati del Sì e quelli del No dovrebbe avvenire sotto gli ombrelloni invece che nelle piazze troppo assolate o negli studi tv, refrigerati ma desertificati di audience. Se la ristrettezza dei tempi dissuade da manovre affrettate, il - chiamiamolo così per brevità - galateo istituzionale le sconsiglia del tutto. Chiamare al voto gli italiani appena due giorni prima della riunione della Corte sa tanto di pressing. Vogliamo definirlo improprio? Forse. E magari anche irritante. Che a farlo sia il presidente della Repubblica - visto che tocca a lui, su indicazione del Consiglio dei ministri (tradotto: di Renzi) fissare la data di svolgimento del referendum - sembra difficile. Peraltro il presidente della Corte, Paolo Grossi, gode nei Palazzi del potere della fama di personalità «molto indipendente». Ultima conferma: l’invito a recarsi ai seggi nel referendum sulle trivelle «perché votare fa parte della carta d’identità del buon cittadino». Serve ricordare che il capo del governo aveva fatto campagna per l’astensione? E perciò - ferma restando l’obbligata terzietà istituzionale - quale sarebbe la reazione di Grossi di fronte agli strattonamenti temporali di palazzo Chigi?Infine ci sono le motivazioni politiche. La più importante concerne il risultato delle amministrative di domenica. Se il Pd vince a Torino, Milano e Roma (Napoli è persa, Bologna è scontata), il premier ne trarrà forza per imporre il suo volere sul referendum. Ma se i risultati dovessero essere in chiaroscuro e se soprattutto l’astensione dovesse fare il pieno, non sarebbe agevole per Renzi giustificare interventi di netto spessore decisionista.Detto questo ma allora quando si vota per il referendum? A ottobre, lo sanno tutti. La data? Calma. C’è tempo.