Duran Duran, A-Ha, Spandau Ballet. Nei confusi ricordi dei ragazzini degli anni ’80 si aggrovigliano immagini e note delle prime boy band capaci di creare casi di isteria di massa. Nelle bambine e le ragazzine, che tappezzavano di poster ammiccanti e pettinature vaporose le pareti delle loro camerette, per i maschietti che covavano l’illusione di essere come loro mettendo accessori alla moda, pantaloni di pelle o giacchette jeans. Volendo mettere in campo categorie gaberiane – destra/sinistra – i Duran Duran erano edonisti, di destra, gli A-Ha di sinistra (erano norvegesi e quel synthpop faceva tanto fighetto e radical chic), gli Spandau servivano a far sentire intelligenti e competenti, ma allo stesso tempo vicini alla gente, gli intellettuali e i puristi della musica – quelli che ora stanno inorridendo leggendo queste righe che mettono insieme capra e cavoli e che urleranno pensando ai Kemp e Hadley bollati come boy band – che potevano dire “eh, ma agli inizi questi erano davvero rivoluzionari”. A volte però serviva solo per non dare la propria adesione ai Duran Duran, a rifugiarsi Through the barricades, e non darla vinta a Simon Le Bon. Magari per poi ballarlo alla festa delle medie.Facciamolo questo outing. Quei wild boys ci sono sempre piaciuti, ma non potevamo dirlo. Li tenevamo dentro i nostri walkman, deridendo le nostre fidanzatine – sì, quelle che ci avrebbero sposato anche se ancora non lo sapevano e quindi andavano con quello con la moto – che sognavano di incontrare il frontman dei DD. Erano troppo pop, commerciali per noi che tentavamo di darci un tono con Doors e Pink Floyd. Mentre loro andavano con quello che nella sua spider compratagli dal papà metteva la musicassetta di Notorious.Ora che tornano in tour in Italia, che Simon Le Bon non è più quello che sul desiderio erotico di massa preadolescenziale ha costruito una carriera e ha pure permesso a Carlo Cotti di farci un film, il teen-movie cult e mai abbastanza apprezzato che fu Sposerò Simon Le Bon, possiamo confessare. Lui non ci ruberà più le ragazze, al massimo il panino con la mortadella (sì, nonostante un recente dimagrimento, si è espanso più dell’hinterland romano negli anni d’oro dei palazzinari). Ma se la cavano ancora alla grande quelli che i nostri critici parrucconi definivano come un episodio di entusiasmo collettivo passeggero. Neanche fossero i Take that (su cui, comunque, dovremmo fare un ragionamento approfondito). “Il pop fa fatica a invecchiare, ma noi ci siamo mantenuti benissimo” ha dichiarato con l’ironica saggezza del 57enne, il leader, prendendosi la rivincita su tutti coloro che avevano decretato la loro pochezza. Forse perché quel rock, quel synthpop che i rivali percorrevano con ostinazione e che loro usavano alla bisogna, quel soul di cui innervavano il loro pop che in Italia facevano perfettamente pendant con le scarpe Timberland, le felpe Naj-Oleari e i jeans El Charro (sì, ci vestivamo così, anche chi di noi non fosse un paninaro), erano tanto altro, oltre le hit.E Paper Gods, album del 2015 che ora presenteranno nei concerti italiani, è la firma su una carriera pazzesca. Perché se è vero che, come Gianni Morandi, hanno avuto un periodo in naftalina per poi ritrovarsi di nuovo sulla scena internazionale grazie anche al nostalgismo vintage dei musicofili, sempre pronti a dire “quando c’era lui (Hendrix, Morrison e sì, persino Simon) gli lp arrivavano in orario e la musica non era ancora morta”, con l’ultimo lavoro ci dicono che un motivo c’è se di quegli anni sopravvivono (o quasi) loro e gli U2. E’ tutto in quell’insieme di pezzi che recuperano le loro anime, non più inserite sapientemente – anche da produttori e arrangiatori di livello – in canzoni da classifica che facevano impazzire il Supertelegattone, ma frammentate in tante melodie diverse, unite da quell’anima pop mai rinnegata né persa, ma capace di attrarre John Frusciante (che qui è di fatto un elemento aggiuntivo della band) e pure un genio come Nile Rodgers, che li ha accompagnati per anni, e accanto ci metteva il lavoro con David Bowie. Ecco, non inorridite, in questo Paper Gods – altro che i Panama Papers di altre pop star – si sente pure un pizzico di Duca Bianco. Andateli a vedere nella loro settimana italiana (da Taormina a Milano, passando per Roma, Verona e Firenze, dal 5 al 12 giugno), spaccano ancora dal vivo, anzi forse pure di più, sebbene Le Bon abbia imparato a modulare la voce e renderla meno indisciplinata e, a volte più convenzionale. In fondo quando iniziò, erano i tempi del Midge Ure degli Ultravox, uno che con le corde vocali è andato parecchio oltre, e di Jim Kerr e i Simple Minds.La differenza, i Duran Duran, l’hanno fatta con i tormentoni che ancora riconosciamo, ma anche con quello che hanno ascoltato. E se vi diciamo che Simon aveva amici punk, da adolescente, e che non disdegnava i loro concerti capirete la longevità di questo gruppo. Invecchiato molto meglio delle loro fans – oggi le chiamerebbero le duraners – che oggi al loro concerto ci verrebbero con noi. Ma stanno con quello con la moto. Sempre la stessa.