Ma se la magistratura altro non è che una parte della sovrastruttura destinata per definzione a fare gli interessi esclusivi della classe sociale dominante, che senso ha insistere sulla sua indipendenza? E’ una di quelle domande che anche solo ad accennarle, oggi, si passa senza appello per dementi. Nel 1950 le cose stavano diversamente. Proprio a tanto inquietante quesito teorico tentava di dare risposta, in un lungo e dotto articolo sull’Unità del 24 giugno, Vezio Crisafulli, giurista di chiara fama e allora militante comunista. Se la cavò, un bel po’ fumosamente, spiegando che, siccome l’egemonia borghese mira a suscitare consenso e all’amministrazione della giustizia i cittadini sono particolarmente sensibili, ecco che si apre un spiraglio perché la magistratura finisca qualche volta per imporre "all’occorrenza il rispetto della legge persino agli organi governativi".In effetti il Pci dei bui anni ‘50 martellava sull’indipendenza della magistratura, perennemente "a rischio", persino più di quanto non avrebbe fatto il partito erede nella goduriosa epoca dei festini berlusconiani. Mirabile coerenza? Solo in apparenza. Il Pci difendeva senza requie la magistratura come istituzione, ma quando si passava al comportamento dei singoli magistrati, la musica era ben diversa. I magistrati in carne e ossa erano per lo più visti come nemici, non tanto perché emanazione sovrastrutturale della borghesia ma, più prosaicamente, in forza della cultura fascista nella quale si erano formati e di cui erano imbevuti, nonché per la loro tendenza ad assecondare, in piena indipendenza, il potere. Nel Pci, l’idea che una sentenza non si dovesse discutere ma solo rispettare sarebbe stata da provvedimento disciplinare.Di conseguenza il Partito comunista sfoggiava un garantismo senza ombre, fatto salvo il sospetto, giustificato ex post dai successivi rovesciamenti di posizione, che "il partito" avesse a cuore più le sue proprie sorti che il diritto in sé. Non che fosse così per tutti. Nel Pci occupava una postazione importante il gruppo di avvocati, sinceramente garantisti, che aveva come punto di riferimento ideale Umberto Terracini e che, negli anni della guerra fredda e della grande repressione, esercitavo un peso notevole nella cultura comunista: Gullo, Malagugini, Sotgiu, Cavallari e con loro molti altri.Ma negli anni ‘60 a indossare la toga è una nuova generazione di magistrati, antifascisti, spesso di sinistra, quelli che nel ‘64 danno vita a Magistratura democratica. Però, anche se ora ci sono togati che mirano esplicitamente a contrastare la "giustizia di classe", la diffidenza del Pci nei confronti del grosso dei magistrati permane. Nell’agosto ‘68, sempre sul quotidiano del partito, Fausto Gullo, che aveva sostituito Togliatti come ministro della Giustizia nel luglio ‘46, si chiede se davvero la magistratura "nel suo insieme" possa dire di aver cercato di applicare la Costituzione quanto a diritti sociali e libertà civili. Domanda retorica a cui segue un affondo eloquente: "Si può davvero dire che essa ha operato in modo da attenuare, non dico da cancellare, l’impronta decisamente classista che porta con sé dalla sua nascita? ".Tutto potevano immaginare, i dirigenti del Pci, tranne che di doversela vedere, di lì a pochissimo, con un plotone di magistrati che l’ "impronta decisamente classista" la rivendicavano, però a parti rovesciate, e che si consideravano elemento integrante del "movimento di classe". Nel novembre 1969 il direttore del periodico Potere operaio, "voce" del gruppo rivoluzionario omonimo, fu arrestato, processato per direttissima e condannato a 17 mesi per "apologia di reato" e "incitamento alla sovversione contro i poteri dello Stato". I magistrati di Md non rispettarono la sentenza. La discussero invece come oggi nessuno oserebbe più fare. Il Pci fu altrettanto critico. Una parte di Md, considerando la linea della correntecorriva con l’estremismo, se ne andò per fondare un’altera corrente, "Impegno costituzionale".Senza più dover fare i conti con l’ala moderata, Md si spostò su posizioni sempre più vicine a quelle del Movimento, e le tensioni con la componente vicina al Pci diventarono bollenti. Però ancora nel 1975, quando il governo varò il primo grande provvedimento emergenziale, quella legge Reale che permetteva alle forze dell’ordine un assai più disinvolto uso delle armi da fuoco e prolungava il fermo di polizia così che il fermato potesse essere interrogato per giorni senza assistenza legale, il Pci si schierò contro con fermezza. Il segretario Berlinguer definì la legge "una tentazione condannevole, un errore grave da cui ancora una volta vogliamo mettere in guardia". Il capo dei deputati Natta parlò di "disposizioni pericolose e al limite della Costituzionalità".La svolta si realizzò in quel triennio di "unità nazionale" i cui effetti esiziali non si sono ancora esauriti. Il Pci aveva vissuto con crescente fastidio la presenza di un Movimento rivoluzionario alla propria sinistra, ma solo quando nel ‘76 entrò per la prima volta nell’area della maggioranza politica lo individuò come il principale nemico da battere, e quando gli spari iniziarono a risuonare con frequenza non esitò a sacrificare spensieratamente ogni difesa delle garanzie. Del resto, buona parte dei magistrati di punta impegnati nella lotta al terrorismo erano uomini del Pci stesso, come Violante, Caselli e Spataro, il che permetteva di lasciare delega piena al potere togato senza timori.Lo scontro si accese in pieno ‘77, al congresso di Md di aprile. Il documento della sinistra non era particolarmente barricadiero per la verità. Affermava solo che "indipendentemente dal giudizio sulla opportunità e validità dei vari movimenti" alla magistratura spettava il compito di "garantire il libero dispiegarsi di ogni dinamica sociale che si esprima alla luce della Costituzione". L’Unità bollò il documento come "ambiguo e per certi aspetti preoccupante", definì quella della maggioranza di Md una "scelta elitaria". Su Democrazia e Diritto, Luigi Berlinguer fu più sbrigativo: il garantismo "va rifiutato per la sua parzialità, poiché cogliendo un solo aspetto della realtà rischia di divenire mistificante e soprattutto sposta l’accento fuori dalla posta in gioco fondamentale". La quale era ovviamente l’ingresso del Pci al governo, sia pure contrabbandato come "il governo democratico dell’economia".Così, quando nel ‘78 i radicali proposero il referendum contro la legge Reale, il Pci non solo non lo appoggiò, ma accusò il Pr di "premeditato attacco alle istituzioni e alla democrazia per un scopo che non contraddice gli obiettivi della manovra eversiva da tempo in atto nel nostro Paese". E l’anno seguente proprio il Pci, con i "suoi" magistrati ma anche incaricandosi direttamente di fornire le testimonianze su cui basare l’inchiesta, fu il vero regista del processo 7 aprile, che resta a tutt’oggi il massimo esempio di stupro dei diritti nella storia giudiziaria italiana.Finita negli 80 l’emergenza, le pulsioni garantiste nel Pci avrebbero potuto riemergere. Perché non andò così? Probabilmente per una somma di motivi diversi e convergenti. La magistratura aveva ormai acquisito un potere immenso al di fuori dell’area di propria pertinenza, col quale era sconsigliabile scontrarsi. Le pressioni dall’interno della magistratura sul Pci erano massicce, con numerose ed eminenti figure di raccordo. La competizione durissima col Psi, infine, spingeva entrambi i partiti a polarizzare le posizioni, in direzioni opposte.Ma il percorso, in quel decennio e oltre, è stato meno lineare di quanto non sembri oggi. In fondo ancora nel 1992, dopo le stragi di mafia, il Pds di Occhetto non votò il pacchetto di leggi speciali varato dai ministri Scotti e Martelli e scelse, nonostante una pressione dell’opinione pubblica senza precedenti, l’astensione. In una conferenza stampa Massimo Brutti e Ugo Pecchioli, il "ministro degli Interni del Pci" negli anni della solidarietà nazionale, dichiararono che quelle proposte contrastavano sia con il nuovo codice che con la Carta. Il Pds di Occhetto, in realtà, mirava a prendere le distanze dalla cultura giustizialista che sempre più aveva segnato il Pci prima dell’89. Lo stesso Pecchioli, negli ultimi anni di vita, si era schierato a favore della "soluzione politica" per gli ex terroristiTangentopoli cambiò tutto. In una prima fase, alla fine del ‘92, il Pds appoggiò le toghe in base a un calcolo opportunistico: in fondo Mani Pulite stava sgombrando il campo da tutti i rivali politici. L’anno successivo, quando era ormai evidente che attraverso tangentopoli il potere togato metteva sotto scacco l’intera sfera del potere politico, subentrarono probabilmente anche altri fattori: la paura di impegnarsi in un conflitto nel quale la politica era il contendente debole e ancora di più quella di scontentare una base che, una volta scatenata, non poteva più essere imbrigliata. Quando, nel marzo ‘93, il ministro Conso varò un decreto che depenalizzava il reato di finanziamento illecito per i partiti, il Pds passò dal sostegno alla strenua opposizione, sotto la spinta dell’opinione pubblica, letteralmente nel giro di poche ore.Però non fu quello il colpo del ko. D’Alema, pur essendosi giovato dell’avviso di garanzia contro Berlusconi per portare a termine il suo "ribaltone", puntava davvero a un riequilibrio dei poteri, più in nome del primato della politica che della sacralità del diritto. La partita della sua "bicamerale", l’ultimo tentativo serio di rivedere la Costituzione che ci sia stato in Italia, si giocò proprio sulla giustizia. Una vulgata addomesticata racconta che a far fallire quel tentativo fu la marcia indietro di Berlusconi. In realtà, come ha poi raccontato il relatore Cesare Salvi, fu il freno della sinistra sul capitolo riforma della giustizia, imposto di fatto dall’Anm, a spingere il Cavaliere in direzione d’uscita. E a chiudere la partita tra politica e magistratura con la vittoria piena di quest’ultima.(seconda puntata. continua)