Warren Richardson. Shahpour Pouyan. Arabella Dorman. Barthélémy Toguo. Ai Weiwei. Gianfranco Rosi. Sono gli ultimi che hanno utilizzato la loro arte per parlare della morte dei rifugiati. Ci stiamo impregnando con la spiritualità di queste vite tragiche che non abbiamo vissuto. Rubiamo le loro emozioni e le convertiamo in arte. Esiste uno sfasamento semantico e umano in queste opere in cui i rifugiati sono oggetti, raramente soggetti. Warren Richardson, fotografo australiano, ha ricevuto qualche mese fa il World Press Photo 2016. I giurati parlano così della sua fotografia: «È una immagine incredibile della crisi dei rifugiati. Abbiamo visto centinaia di foto del viaggio dei rifugiati», Vaughn Wallace scandisce le parole con sicurezza, «ma questa immagine ha catturato il mio sguardo per le sue qualità pittoriche. Il bianco e nero avvicina la foto a un disegno a carboncino».«C’è il simbolismo del filo spinato. Questo uomo passa suo figlio sotto il filo spinato a un altro uomo. È notte e l’immagine ha qualcosa di indefinito. Abbiamo giudicato che in questa foto ci fosse tutto», le parole di Francis Kohn sono parole spirituali.“È un momento incredibile”, la voce di Tom Clayton trema, «chiunque la guardi sente il dolore di questo padre. Il fotografo ha scattato una immagine straordinaria in una situazione molto difficile. Già è un’icona».Questo neonato rifugiato passerà sotto il filo spinato e morirà di freddo durante l’attraversamento della Polonia, dieci giorni più tardi. Questo neonato rifugiato raggiungerà la Svezia, l’Italia, il Belgio, però il padre, in quanto iracheno, non ha il permesso di rimanere con la sua famiglia siriana, e perciò verrà espulso. Questo neonato rifugiato arriverà in Danimarca, Austria, Germania. O arriverà in Lettonia, studierà e avrà famiglia. Tra venti anni gli mostreranno la foto che Warren Richardson ha scattato. Riconoscerà suo padre che ha vinto il World Press Photo 2016?L’artista iraniano Shahpour Pouyan ha alterato alcune miniature persiane. Il veliero che trasportava un equipaggio è cancellato da un nero uniforme. Attraverso la patina nera si intravedono sottili linee che potrebbero essere persone. Titolo:  Dio decide la rotta, non il capitano. Il paesaggio marittimo ricorre nell’80% delle opere che si ispirano alla tragedia dei rifugiati. Foto, film, libri, disegni, istallazioni, quadri. Il mare nasconde e culla con le sue onde, è il luogo della solitudine e del sublime. E la morte nel mare è una morte drammatica e solenne.Nella chiesa di Saint James di Londra, un gommone verde scuro pende dal soffitto sulle teste di coloro che si siedono per pregare. «Il mio pensiero va ai 3600 morti che hanno cercato invano di attraversare il Mediterraneo», dice l’artista Arabella Dorman. Per il lancio dell’opera, nella chiesa hanno organizzato un’ora di meditazione e preghiera. «Sembra ipocrita, ma avere una tomba galleggiante sulla testa cambia le parole delle liturgie e delle preghiere». Cambiano le parole perché questo gommone verde che ha salvato la vita a 62 persone risplende di vita ma è bagnato con la morte.Che peccato che nell’arte come nei dibattiti politici, i rifugiati siano oggetti, mai soggetti. Si parla di loro sempre con l’aggettivo qualificativo che indica una moltitudine indefinita: i rifugiati. Questa parola, i rifugiati, potrebbe tranquillamente essere singolare. La sua emozione non è sua. Il suo viaggio non è suo così come il suo dolore. È di tutti noi che ci sbrodoliamo di parole, di immagini e di opere che parlano di loro, anzi di “lui”: i rifugiati. Tra uno, due, dieci anni, quando inizieranno a uscire le testimonianze artistiche di chi davvero ha viaggiato sui barconi e ha visto il rifiuto dell’Europa sulle facce dei poliziotti schierati ai confini, probabilmente la nostra cultura sarà saturata di quelle storie di mare e famiglie spezzate. Ricorderemo i nomi degli artisti che hanno denunciato il massacro, i soggetti, e non ricorderemo nessun nome degli oggetti, solo i rifugiati.Ai Wei Wei ha ricoperto le colonne del Konzerthaus di Berlino con quattordicimila salvagenti arancioni recuperati sulle spiagge greche. Che ha generato la sua opera? Migliaia di selfies, momenti di riflessione più o meno profondi, il party di Charity for Peace per raccogliere fondi. Attori, musicisti, stilisti, Charlize Theron con un abito nero che toglie il fiato, foto, sorrisi, vestiti costosi, gioielli e giubbotti dorati contro il vento marino, agitati sorridendo davanti al buffet. Tim Renner, Segretario alla Cultura di Berlino, ha pubblicamente definito «vergognosa quella manifestazione», nonostante il fine benefico. Pochi giorni dopo l’istallazione al Konzerthaus, Ai Wei Wei ha riprodotto la foto di Aylan Kurdi. Al posto del bimbo con la faccia sulla battigia, c’era l’artista stesso bocca sulla sabbia, in bianco e nero. Perché farsi soggetto di un fatto tragico? Se l’artista cinese non può fare a meno di apparire rubicondo in giro per l’Europa, la Apple dovrebbe venirci in aiuto e inventare una applicazione per smartphone che ci permetta di tenere il suo facciotto sorridente sempre con noi: I Wei Wei.Un problema simbolico assilla tutte queste opere. Un libro. Un gommone. Un anello di matrimonio. Un salvagente. Se la reliquia non ha nome né volto, o ricordi del suo proprietario, è un oggetto privo di energia. E i rifugiati si rifugiano dentro gli oggetti, diventano oggetti da esporre nei musei.Invece vogliamo i nomi e l’età. Vogliamo le storie, i costumi culinari e sportivi. Le barzellette che si raccontano mentre camminano al freddo. Il colore preferito, la cantante preferita. Il libro preferito. Vogliamo esperienze da condividere in vita, l’amore e la religione. Vogliamo la vita, perché è la vita che mobilita. La morte lascia un fastidioso timore viola nello stomaco che si inacidisce la mattina, e svanisce il giorno seguente.