La propaganda populista è un veleno che insidia le comunità, incanaglisce la convivenza, alimenta la macchina della paura. L’immagine apocalittica dei migranti musulmani che assaltano l’Europa imbelle per tagliare le sue radici e distruggere la sua cultura, sarà anche una suggestione paranoica ma da tempo costituisce la fortuna di tanti leader politici che soffiano sul fuoco della xenofobia per ottenere consensi e potere. E l’ignoranza si rivela sempre il principale carburante di questa proiezione ideologica, come nel caso di scuola dell’islam, una religione di cui tutti parlano ma di cui quasi nessuno conosce la storia e i fondamenti. Lorenzo Declich, esperto del mondo arabo-musulmano e autore de L’Islam in 20 parole, un piccolo ma indispensabile manuale di sopravvivenza agli stereotipi islamofobi che infestano il discorso pubblico, prova a smontare i principali luoghi comuni che fanno dell’islam la più incompresa delle religioni: «In Italia e più in generale in occidente c’è bisogno di rimettere a fuoco l’islam, non tanto per la sua realtà politica e culturale, ma per come viene percepito, dai media e dall’opinione pubblica.  Se da una parte non mi sono dilungato in descrizioni minuziose sul come si recita una preghiera o in cavillose dispute teologiche, rimanendo su un terreno più generico, in alcuni casi ho provato ad approfondire ad articolare alcune nozioni»Ad esempio?Ad esempio ritengo che sia necessario disgiungere i concetti di jihad, terrorismo, Stato e politica. Nell’opinione mainstream questi termini vengono sempre associati e invece ognuno di essi va spiegato nel suo contesto specifico proprio per impedire le strumentalizzazioni compiute dalla retorica islamofoba. Per questo ho consacrato un capitolo all’islamofobia che ha un forte rilievo politico in Italia, in Europa e nel mondo. Sappiamo che la gran parte delle campagne populiste ruota attorno alla paura dell’islam e si nutre di leggende, di vere e proprie favole islamofobe. Che influenzano sia la vita quotidiana dei musulmani che vivono in occidente che l’accoglienza dei migranti che provengono da paesi islamici, tra le principali vittime di questa opera sistematica di disinformazione.Una delle suggestioni, che fa presa anche nell’opinione cosiddetta progressista, riguarda ruolo della donna nelle società islamiche definite con molta approssimazione come "medievali"Ho trattato questo aspetto molto delicato nell’ultimo capitolo del libro. Sulle donne non ricadono soltanto gli stereotipi e i pregiudizi interni alla cultura islamica ma anche tutta una serie di luoghi comuni che abbiamo costruito noi, principalmente una quantità esorbitante di paternalismo e di maschilismo che gli occidentali condividono con il mondo arabo musulmano.Vuoi dire che lo stereotipo dell’islamico machista è mutuato dal paternalismo all’occidentale?Ci sono molte più analogie tra il "nostro" e il "loro" maschilismo di quanto si pensi e le reazioni a dei provvedimenti misogini o comunque vessatori nei confronti delle donne sono ugualmente misogini, ma all’occidentale. Per andare nel concreto prendiamo l’argomento dell’allattamento al seno. Nel 2007 un muftì egiziano, attraverso una fatwa che poi è uno stravagante artificio giuridico per aggirare un divieto, ha affermato che per potere avere promiscuità nei luoghi di lavoro tra uomini e donne è necessario che siano consanguinei, e poiché ai consanguinei è consentito vivere nella promiscuità, in sostanza sarebbe sufficiente che una donna allatti il suo collega, anche con poche gocce. L’artificio giuridico ovviamente fa sorridere e ha scatenato ironie di ogni tipo ma i commenti principali erano del tipo: «Che bello andiamo tutti a vivere in Egitto!».Quanto pesa l’influenza dell’ideologia religiosa nella tardiva emancipazione della donna?Molte volte si confonde il piano politico-sociale con quello religioso e si leggono i fenomeni in modo monodimensionale. Se nelle società islamiche, in famiglia come nei luoghi di lavoro, la donna non ha gli stessi diritti dell’uomo, se quelle società sono bloccate, la colpa non è della religione, ma delle dittature, delle oligarchie, dei sistemi di potere che usano a volte usano l’ideologia religiosa, altre volte si definiscono laiche, ma di fatto impediscono a quelle società di liberarsi. Il problema riguarda il potere costituito e lo Stato di diritto in generale, in questo quadro anche la condizione femminile viene tenuta sotto controllo dal potere. Eppure come hanno dimostrato le primavere e le rivolte arabe c’è una forte spinta da parte dei giovani per ottenere più spazi e democrazia, come ci sono molte donne che partecipano alla vita civile e politica, le voci femminili nel mondo islamico ci sono tutte ma noi non le vogliamo vedere, noi non riconosciamo quei processi di emancipazione e di secolarizzazione che fanno evolvere la percezione della religione e che esprimono una forte volontà di cambiamento. Quello che ci interessa è parlare dell’ “inverno islamista".Però le violazioni dei diritti avvengono spesso in nome della religione, anche in regimi per così dire laici come nell’Egitto di al-SisiAl Sisi dichiara che la sua fonte di ispirazione è l’islam e attualmente il suo principale partner è la monarchia saudita che ha una lettura fondamentalista delle scritture, la sua giunta non ha esitato a prendere provvedimenti liberticidi in nome della morale islamica, negli ultimi mesi abbiamo avuto notizie di giovani cristiani arrestati per vilipendo dell’islam. Al Sisi, che è un dittatore, è un esempio perfetto di quanto la questione religiosa sia una variabile dipendente del potere, strumentale al suo mantenimento. Stesso discorso per la Siria di Assad che viene spacciato a torto come un campione della laicità e un argine all’estremismo integralista.Quanto questa recezione distorta del “problema” islamico alimenta i pregiudizi verso gli immigrati musulmani qui in Europa?Penso ai fatti avvenuti a Colonia lo scorso Capodanno. I giornali hanno descritto le insopportabili molestie subite dalle donne applicando una sola lente, che è quella religiosa, non hanno visto la complessità e la diversità delle persone che hanno compiuto le molestie, li hanno definiti “maghrebini” ignorando che molti di loro sono maghrebini di origine ma cittadini tedeschi a tutti gli effetti, hanno scritto che erano tutti dei musulmani praticanti e poi si è scoperto che non era vero. Su queste semplificazioni hanno però costruito un discorso emergenziale, che vede l’islam come un’eccezione tra le altre religioni, un’eccezione criminogena che spinge i suoi fedeli a macchiarsi di misfatti terribili. Per tornare ad al-Sisi, nessuno ha fatto notare che quegli attacchi, quelle molestie di strada di Colonia sono identiche a quelle compiute dai teppisti mandati dal regime ad attaccare le donne nelle manifestazioni a piazza Tahir per creare panico, gli stessi che nei commissariati di polizia costringevano le ragazze a subire i test di verginità. Non mi pare che i molestatori di al Sisi abbiano una grande relazione con la religione islamica o che fossero guidati da chissà quale imam. L’assalto sessuale è stata una strategia precisa delle forze di sicurezza egiziane fin dalle grandi rivolte del 2011 contro il regime di Mubarak. Anche in queste tristi vicende le violazioni non hanno nulla a che vedere con l’islam ma con la questione del potere e della repressione messa in atto dagli apparati dello Stato. Putroppo si preferisce il folklore e il pregiudizio anti-islamico diventa l’unica chiave di lettura dei fatti.Un altra fonte di equivoci è la confusione tra tribalismo e religione. Viene in mente il caso di Mutlu Kaya, la ragazza turca di 19 anni ridotta in fin di vita da alcuni membri della sua famiglia per impedirle di partecipare a un talent show. I media hanno pontificato sulla natura “barbarica” e “medievale” dell’islam, quando poi si è scoperto che ola povera Mutlu è stata vittima di una punizione tribale del tutto estranea alla cultura islamica.Questo è un elemento importantissimo quando si parla di islam perché è necessario evitare di sovrapporre i due piani: nei villaggi i legami tribali e il potere patriarcale su cui si innesta la religione musulmana ancora oggi determinano la vita di milioni di individui nelle loro comunità. Quel che ho tentato di evidenziare con il mio lavoro è che la cifra della civiltà arabo-islamica è al contrario il cosmopolitismo, quando appaiono nel settimo secolo i musulmani costruiscono le città, Baghdad, il Cairo, promuovono l’arte e le scienze, permettono alle donne di ricevere un’eredità, sono portatori in tal senso di un progetto universalista che rompe con le tradizioni tribali. L’Islam politico come strumento di rivalsa, l’interpretazione offensiva del jihad, l’idea della restaurazione del Califfato è invece un progetto recente che nasce con la formazione degli Stati nazionali e con la fine dell’impero Ottomano, costituisce una rottura con la tradizione musulmana con un’appropriazione indebita del discorso religioso.E qui ritorniamo al jihadFino all’inizio del XX secolo il concetto jihad, che in arabo significa sforzo, non aveva la connotazione di guerra santa ma indicava la tensione spirituale di ogni musulmano nel migliorarsi, è con la fine del colonialismo che l’islam diventa centro di ideologie politiche e che nasce il jihadismo moderno, una rilettura immaginaria dei testi religiosi che ha valenza di azione politica e di propaganda. Ma anche in movimenti islamisti popolari come i Fratelli Musulmani questo jihadismo è sempre stato minoritario, fino a diventare inane con l’abbandono delle armi. Mentre gruppi armati come al Qaeda, almeno fino al 2001, hanno seguito una strategia verticistica, muovendosi nella clandestinità ed evitando qualsiasi forma di contatto con la popolazione, per esigenze militari ma anche di propaganda interna allo scopo di evitare il confronto politico con altre realtà sociali e culturali. Poi con l’apertura dei fronti di guerra in Afghanistan e soprattutto in Iraq le cose sono cambiate, entrando nei conflitti armati, nel buco nero degli Stati falliti, nelle situazioni di insorgenza i miliziani di al Qaeda si uniscono ai guerriglieri sunniti, agli ex fedelissimi di Saddam Hussein, stringono accordi con le piccole mafie e i dignitari locali, un intreccio che ha poi partorito l’Isis.Eppure per il senso comune l’islam è una religione guerriera, quasi predatoriaBill Warren, un universitario americano islamofobo, afferma che dal 622 a oggi tutto quel che hanno compiuto i musulmani ha come obiettivo la guerra santa e la conquista, Warren costruisce un mondo spaventoso in cui ogni musulmano che incroci per la strada è un potenziale terrorista pronto a portare a termine il suo jihad contro di te. Siamo nella pura islamofobia.È innegabile che al suo interno il mondo islamico sia attraversato da linee di frattura, da tensioni settarie se non da vere e proprie guerre, penso al conflitto confessionale tra sciiti e sunniti, tra Iran e Arabia Saudita più in generaleMa anche in questo caso ritorniamo al problema centrale: la religione è una variabile dipendente e strumentale, il conflitto tra Teheran e Riyad è infatti un conflitto geopolitico per l’egemonia nei territori arabo-musulmani, gli interessi che lo muovono sono tutt’altro che spirituali, allo stesso tempo è altrettanto vero che la base confessionale è un aspetto ideologico necessario per reclutare e mobilitare combattenti stabilendo un legame di fidelizzazione forte.