Una Leopolda di destra. Non tanto e non solo per scegliere il leader - laddove la strada di primarie con regole precise (vedi i Républicains di Sarkozy) non va scartata - bensì per superare le grandi contraddizioni programmatiche che esistono nel centrodestra e lo bloccano. E’ la proposta che Gianfranco Fini rilancia alla vigilia delle amministrative per individuare un possibile sentiero di lavoro comune dello schieramento anti-Renzi non grillino. Possibile? Forse. Difficile? Di più. Prendiamo l’attualità. Ultimo giorno di sondaggi ufficiali e plof, Alfio Marchini si ritrova con un misero 10 per cento. Dunque delle due l’una: o vi siete affidati ad un perdente, oppure avete sbagliato alla grande l’operazione politica berlusconian-centristra... «C’è anche una terza possibilità - taglia corto l’ex leader di An - cioè aspettare i risultati elettorali veri: non sarebbe la prima volta che le rilevazioni della vigilia vengono smentite dalle urne. Del resto i sondaggisti più seri spiegano che c’è una quota di elettori che decide per chi votare solo all’ingresso nella cabina elettorale. E poi l’estrema volatilità dell’elettorato può benissimo rendere possibili sorprese anche importanti».Detto questo, i numeri non cambiano. Dunque?«Dunque insisto: aspettiamo. Personalmente lo faccio con una certa fiducia. L’esperienza mi fa essere ottimista: grazie alla candidatura di Marchini, ci sono le condizioni per sfondare il muro di diffidenza verso la politica».Ma questa operazione di Roma, che vuol dire politicamente? Dove sfocia?«Di regola tendo a bandire le ipotesi estreme. Ossia il voluto minimalismo di chi dice che bisogna solo eleggere il sindaco di Roma o, all’opposto, il massimalismo di chi si sforza di scorgere chi sa quali reconditi significati. La storia ci insegna che entrambe le possibilità sono in campo».Tutto qui? Bello sforzo...«No, affatto. Però parlando di centrodestra sarei curioso di capire come mai sono in tanti a assicurare che la vicenda romana apre chissà quali scenari nazionali e pochissimi invece si soffermano su Milano, che è altrettanto importante, e dove le condizioni sono opposte. A Roma il centrodestra è diviso; a Milano sono tutti insieme, compresi Ncd e perfino il civico Passera, ultra inviso a Salvini. Qual è l’anomalia, Roma o Milano? La verità è che il centrodestra è un cantiere in costruzione o, se si preferisce, in ricostruzione. Bisognerà aspettare per capire quale sarà l’edificio definitivo. Faccio un esempio. Alfano che appoggia il centrodestra a Milano e poi pochi mesi dopo cambierà collocazione votando Sì al referendum costituzionale, alle elezioni politiche con chi si schiererà? ».Sì, ma così lei svicola. L’Ncd farà le sue scelte, ma il resto del centrodestra è tutt’altro che unito e competitivo. Volete perdere sempre?«Guardi, a costo di sembrare pedante ribadisco che a mio avviso la priorità non è stabilire ora qual è il perimetro del centrodestra. E neppure scontrarsi su chi deve fare il candidato premier».E allora? Cosa resta?«La parte più difficile. Cioè definire l’identità programmatica del centrodestra, facendo chiarezza con assoluta necessità sulle evidentissime contraddizioni che ci sono. E non parlo di Roma, dove alcuni hanno fatto scelte di convenienza. Parlo di contraddizioni di contenuti: o vengono sciolte o non ce ne sarà per nessuno».Proviamo a fare un elenco?«Certo. Salvini, se non sono informato male, punta sulla Brexit. Berlusconi, al contrario, è sulla linea del Ppe che la pensa in modo opposto. Idem per l’euro. Idem ancora sulle politiche possibili per l’immigrazione. Le basta? O vogliamo parlare dei diritti civili, delle unioni di fatto che non possono essere negate nella prospettiva di una destra di governo? ».E’ per questo che alla presentazione del libro di Francesco Storace lei se n’è uscito con la “destra plurale”? Cos’è, un’etichetta per far stare assieme cose che assieme non ci stanno?«Io dico questo. Se resta l’Italiacum, è utopico immaginare due blocchi - uno di centrodestra e l’altro di centrosinistra - pienamente coesi, monolitici e totalmente unitari. Differenziazioni interne sono inevitabili, come succede anche nel Pd senza che questo comporti obbligatoriamente una scissione».Perché lì c’è una leadership chiara ed efficace. Nel centrodestra non c’è, e lei dice che non è importante...«Dico che, allo stato attuale, è un falso problema, una scorciatoia per eludere i nodi veri. Che sono quelli programmatici e identitari che ho indicato. Se ci mettiamo a litigare su chi deve essere il candidato premier senza aver prima sciolto quei nodi... beh, è fatica sprecata. Se il leader non si trova di comune accordo, sarà necessario individuare uno schema che consenta la scelta, o almeno una indicazione, dal basso. Ma con regole chiare, precise, accettate. A mio avviso l’unico modello possibile è quello americano, opportunamente rivisto sulle esigenze italiane. Però vietato illudersi: o risolviamo le contraddizioni programmatiche che fanno da zavorra, oppure sperare nel demiurgo per tornare ad essere elettoralmente competitivi, come ho detto è fatica sprecata. Non è questa la strada per riportare alle urne i tantissimi delusi di centrodestra che non votano più. Bisogna rinnovare davvero, non limitarsi agitare bandiere del passato come l’abbassamento delle tasse. Che resta fondamentale, ma va coniugata ad un profondo ripensamento del welfare».In questa destra plurale Berlusconi ci deve stare o no?«Forza Italia, con il suo consenso elettorale, non può non starci. E FI è Berlusconi. Chi immagina cose diverse, vuol dire che non ha capito nulla degli ultimi vent’anni».Non per insistere, ma come si fa la destra plurale se Salvini dice: là dove c’è Fini non ci posso essere io?«E’ chiaro che se si parte con i veti vuol dire che si privilegia l’interesse particolare rispetto a quello generale. Salvini si assumerà la responsabilità di ciò che dice. E’ un punto centrale».Ma se alla fine Raggi vince a Roma e i Cinquestelle prevalgono alle politiche, che succede?«Succede che Roma e l’Italia fanno un salto nel buio. Col rischio di spiaccicarsi».