Ha detto «grazie». Poi ha sorriso e ha chiuso gli occhi. E’ morto dieci ore dopo.Ha detto grazie, mercoledì sera, ai medici che gli chiedevano se voleva essere sedato. Il dolore era forte. Ormai il cancro aveva vinto. Mica sono tanti quelli che sono riusciti a vincere con Pannella. Di solito vinceva lui. Ne sapeva qualcosa Amintore Fanfani, ne sapeva qualcosa Berlinguer, e anche Andreotti.Pannella è stato un gigante della politica italiana. Forse senza pari. Per passione, per coerenza, ma soprattutto per genialità. Più di De Gasperi, più di Togliatti. Qual era la sua forza? Quella di non accettare mai di essere subalterno. Pannella non giocava di sponda, lasciava che fossi tu ad adattarti. E tu ti adattavi. Ha guidato un partito che raramente ha superato il 3 per cento dei voti. Con quel partito lì, o anche senza, ha imposto ai grandi partiti i suoi tempi, le sue priorità, le sue riforme. Nel 1970 era un quarantenne e il suo partito non era neppure presente in Parlamento. Però fu lui a preparare una legge che introduceva in Italia il divorzio. Una rivoluzione. Lo fece grazie all’aiuto di un parlamentare socialista, che si chiamava Loris Fortuna e di un liberale che si chiamava Antonio Baslini. Sfidò la Dc, che era pronta alle barricate per evitare il divorzio. E sfidò il Pci, al quale quella legge piaceva poco, e meno ancora piaceva di dover andare allo scontro con la Dc e col Vaticano per un “capriccio borghese”. Sfidò il cardinal Villot, potentissimo segretario di Stato, abituato a dettare i suoi voleri. Pci e Dc, insieme, avevano tra Camera e Senato poco meno di 700 parlamentari. Marco non ne aveva nessuno.Vinse lui. E poi vinse il referendum che confermò il divorzio, travolgendo il povero Fanfani, che era un padre della patria, e costringendo due mostri sacri come Berlinguer e Bufalini a passare dalla sua parte.Ci sono quattro parole che riassumono la politica di quest’uomo: coerenza, nonviolenza, diritto e diritti. Lì c’è tutto. Ci sono le sue battaglie sempre anticonformiste, e sempre all’avanguardia.C’è il motivo per il quale, magari a turno, un po’ tutti l’abbiamo odiato. E c’è la ragione dei suoi successi, il motivo per il quale alla fine si faceva amare, ti convinceva, ti acchiappava il cuore.E’ stato un pilastro della Repubblica. Si, sì, proprio un pilastro. La Repubblica italiana nata dalla Resistenza era solida, aveva i partiti di massa, i sindacti, aveva la moralità cattolica, l’uguaglianza comunista, la solidarietà, l’antifascismo, lo spirito di sacrificio della classe operaia. Però portava in se un germe: il germe dell’illiberalità. O se volete - chiamiamolo più dolcemente - della ragion di stato, dell’assoluta sacralità della ragion di stato (o di classe, o di partito, o di religione, o di chiesa: guardate bene che alla fine è la stessa cosa) ed era un germe che era sempre vivo. In agguato. Per combattere quel germe non bastava la pulsione libertaria che fioriva - seppure con qualche cautela - tra i socialisti, o i repubblicani, o i liberali - occorreva la sferza dell’anticonformismo, del sapere andare controcorrente e sfidare il senso comune, talvolta persino l’evidenza. L’antifascismo ti serve a poco se diventa un rito, retorica, celebrazione, strumento per emarginare e confinare e definire i limiti della democrazia. Così è l’antifascismo italiano. Non è molto liberale, è retorico. Pannella lo sfidava, se ne faceva beffe. Perciò rischiava anche il linciaggio.E rischiava il linciaggio quando liberava Tony Negri dal carcere. Perché? Perché Tony Negri era l’estremismo di sinistra, forse la lotta armata, perciò era il male. E rischiava il linciaggio quando liberava Enzo Tortora. Perché? Perché Enzo Tortora era la mollezza borghese, l’ipocrisia, la lussuria, la prova della decadenza. E andava punito. E rischiava il linciaggio quando proponeva di trattare con le Brigate Rosse, per esempio, che tenevano prigioniero un magistrato e minacciavano di ucciderlo, e chiedevano che i giornali pubblicassero i loro proclami. Pannella gridò: «Trattate, per dio! Trattate e salvate la vita a D’Urso». Gli risposero i democristiani, e i comunisti e i liberali, e Scalfari: «Mai, prima lo Stato». Però anche quella volta vinse lui.Figuratevi che Pannella fece scandalo, e anche a sinistra, persino quando propose una grande campagna contro la fame nel mondo. Disse: è un ecatombe, è un olocausto. Gli risposero che era meglio parlare della lotta di classe nel nostro paese. Un po’ come fa adesso la Lega, per esempio, quando qualcuno propone di salvare i migranti che affogano nel Mediterraneo.Marco Pannella è stato un gigante non per la sua fragorosa e devastante opera di testimonianza. Come Capitini, o Dolci o don Milani. Persone fantastiche. Pannella ha fatto molto di più. Altro che testimonianza: ha costretto tutto il mondo politico, e il potere, a fare i conti con lui. Ha messo nel sacco le volpi e si è fatto gioco del potere. Non ha assistito alla vita e allo sviluppo della Repubblica: li ha condizionati, in alcune fasi li ha guidati. Pannella è stato uno statista.Qal era il suo segreto? Uno solo: semplice semplice. Marco, a differenza di tutti gli altri leader politici, piccoli o grandi, se ne è sempre infischiato del potere. Lui pensava che si potesse fare politica, grande politica, senza avere il potere e senza aspirare al potere. E politica senza potere, è matematico, vuol dire coerenza, nonviolenza, diritto e diritti.