Il miracolo è arrivato lunedì in tarda serata, appena in tempo per evitare che dentro il soggetto in costruzione "Sinistra italiana" e nella sua componente principale, Sel, volassero stracci tanto vistosi da rendere poi quasi impossibile recuperare la situazione. Quando il consiglio di Stato, rovesciando la decisione del Tar del Lazio, ha riaperto alla Lista Fassina le porte della sfida elettorale a Roma, già da un paio di giorni i leader della medesima formazione si affibbiavano sui giornali, tra interviste e dichiarazioni contundenti, sganassoni peggio che su un ring.La grazia ha sorpreso i condannati per primi. Non ci speravano proprio. Dopo il pollice verso del Tar avevano già dato per ingloriosamente chiusa la partita, e anche per questo si erano lasciati andare a dichiarazioni pubbliche che sarebbe stato a dir poco consigliabile evitare, almeno sino a esaurimento dell’ultima chance di rientro in gioco. Le scintille avevano iniziato a diluviare subito, immediatamente dopo lo shock della non ammissione, e a porte chiuse i toni si erano già alzati di parecchi decibel. Però solo dopo il verdetto del Tar il candidato in persona ha portato la rissa fuori dalle segrete stanze, con un’intervista al Corriere della Sera, decisamente intempestiva, nella quale accusava senza mezzi termini mezza Sel, se non proprio di tradimento, almeno di disfattismo: «Abbiamo affrontato la sfida a mani nude, con una parte fondamentale del gruppo dirigente impegnato su un progetto diverso». Col manifesto si era spinto anche oltre: «Non si può avviare una fase costituente quando nel nucleo fondativo ci sono prospettive opposte». L’allusione non velata era a quella parte di Sel, facente capo al vicepresidente della Regione Massimiliano Smeriglio e concentrata nel quartiere rosso della Garbatella, detto non a caso "Mompracem”, che aveva storto il naso di fronte alla candidatura Fassina, e soprattutto che è sospettata di farsi tentare dal miraggio di una nuova alleanza con il Pd di Renzi. Ma anche ai molti amministratori firmatari del cosiddetto "Documento dei 100", convinti che la rottura col Pd a livello nazionale non debba necessariamente comportare anche quella nelle realtà locali.La replica, sul medesimo tono, quello che un tempo la liturgia comunista definiva "discussione franca tra compagni" con ciò intendendo un duello all’ultimo sangue, non si era fatta attendere. «Parole offensive verso la comunità politica e umana di Sel», aveva risposto a muso duro Gianluca Peciola, ex capogruppo di Sel in Consiglio comunale. Stessa musica per "i 100": «Bisognerebbe avere più rispetto della discussione di migliaia di compagne e compagni, compresa la straordinaria generosità di Sel». E pensare che l’affondo dell’ex ministro era pure di portata limitata rispetto alle tentazioni della prima ora, quando il candidato in quel momento fuori gioco, in privato e via sms, addossava la responsabilità del fattaccio non a una parte di Sel ma all’intero partito già di Vendola.In questo caso, alle origini della diffidenza di Fassina non c’erano però solo questioni di linea politica. Ogni volta che le formazioni della sinistra radicale tentano una fusione, il confronto tra le diverse componenti impegnate nel progetto comune diventa puntualmente ruvido, costellato di sgambetti per l’occupazione dei gangli nevralgici, e ciò è tanto più vero quando una componente uscita da un partito, come nel caso degli ex Pd fassiniani, dovrebbe unificarsi con un altro partito già esistente e dunque sospettato di mirare alla pura annessione.Oltre all’intervista a lama sguainata, Fassina aveva anche lanciato una proposta che per Sel era più o meno come tirare un sasso dritto contro l’alveare. Aveva proposta di trasformare la lista in associazione presente in tutti i municipi della Capitale: "Sinistra per Roma".Capita infatti che la lista sia sostenuta da una serie di forze che non fanno parte del progetto Sinistra italiana perché non disposte a sciogliersi, come Rifondazione comunista o perché non pronte a rompere con i partiti esclusi, come "L’altra Europa per Tsipras". L’associazione avrebbe di fatto aggirato il veto di Sel contro la presenza di forze politiche non disposte a sciogliersi. Fassina ne era pienamente cosciente, tanto da dichiarare: «Quelle condizioni io le considero archiviate. Il processo costituente di Sinistra italiana e quello di Roma dovranno trovare una modalità per integrarsi». Una bomba non solo per l’area vicina a Smeriglio ma anche per quella, guidata da Nicola Fratoianni, che si preparava al fronteggiamento duro quando il miracolo del Consiglio di Stato ha disinnescato le tensioni.Se a tutto ciò si aggiunge che anche all’interno di Sel la tensione tra l’area critica legata a Smeriglio e quella più convinta della linea incarnata da Fratoianni è forte si capisce perché, all’indomani della non ammissione, le parolette avvelenate "complotto" e "sabotaggio" fossero sulla bocca e nella mente di tutti. Fantasie paranoidi: in questo caso il sabotaggio sarebbe stato il più esemplare caso di «amputazione degli attributi per far dispetto alla consorte». L’errore clamoroso è invece dovuto precisamente al clima che si è manifestato dopo il trauma, certamente poco favorevole a efficienti sforzi organizzativi.Il rientro in lizza ha riportato di colpo il sole sul cammino di SI. I nuvoloni rischiano però di ripresentarsi tutti il 6 giugno. L’ipotesi di vedere Fassina al ballottaggio risulta troppo ambiziosa persino per un miracolato e, se si trovassero a giocarsi la mano finale la Raggi e Giachetti, le divisioni che hanno portato Si a un passo dal decesso in culla potrebbero esplodere di nuovo. Fassina, soprattutto se con alle spalle un risultato comunque confortante, potrebbe rimettere in ballo l’ipotesi di consolidare con un’associazione l’alleanza romana, tanto più in vista del congresso fondativo. Forse per Si il momento del massimo pericolo è passato senza far troppo danno, forse è stato solo rinviato.