È scomparso lo scorso 11 maggio, a 72 anni, l’avvocato newyorchese Michael Ratner. Incarnazione di ciò che gli anglosassoni chiamano radical lawyer, Ratner è stato anche il simbolo della c. d. strategic litigation, ossia la tutela dei diritti umani attraverso strumenti giuridici inediti, selezionando casi pionieristici che possano aprire la strada a nuove forme di tutela. Dopo l’occupazione della Columbia University nel 1968, Ratner iniziò presto a perseguire la sua missione, che lo portava a credere nel diritto non solo in difesa della dignità umana, ma anche come strumento di cambiamento.Dalla difesa dei contestatori del Vietnam ai membri delle Pantere Nere, dalle comunità indigene ai detenuti del penitenziario di Attica dopo la rivolta del 1971, attraverso il Center for Constitutional Rights (CCR), di cui ora era presidente emerito, l’avv. Ratner ottenne importanti vittorie. Fra queste la sfida aperta all’amministrazione Clinton, che portò alla chiusura del terribile “Guantanamo HIV Camp”, un campo dove, dal 1991 al 1993, gli Stati Uniti detennero illegalmente oltre 300 rifugiati di Haiti affetti da hiv.Negli ultimi anni tuttavia Ratner divenne famoso come l’uomo che voleva portare dittatori, torturatori e capi di stato e di governo alla sbarra, dentro e fuori gli Stati Uniti. In casa sua, ci provò già con Reagan, tentando una persecuzione penale per il sostegno ai Contras del Nicaragua. Se politici come Kissinger hanno sostenuto che vi è uno spazio di manovra della politica internazionale entro i quale il diritto non può e non deve entrare, indipendentemente dalla lesione di diritti umani, dal 1998 questa visione si cominciò a essere messa in dubbio. E’ il cosiddetto “effetto Pinochet”, che ha portato molti giuristi a credere (secondo altri ad illudersi) di poter sottoporre il potere alle logiche del diritto e di poter mandare alla sbarra tutti i politici che lo violano, non solo gli appartenenti a un regime sconfitto. Presupposto era uno strumento giuridico che oggi vive una fase di crisi, sia nel civile che nel penale, ma rinasce in nuove forme come quelle dell’arbitrato internazionale: la giurisdizione universale, di cui Ratner era paladino: «nessun rifugio sicuro per i torturatori» era il suo slogan.All’interno degli Usa, il nome di Ratner viene allora di nuovo associato a Guantanamo, questa volta nell’uso che ne viene fatto da Bush in poi. Fu lui il primo a portare i diritti di uno di quei detenuti davanti alla Corte Suprema nel caso Rasul vs. Bush, dove ottenne il riconoscimento di Guantanamo come territorio americano e di conseguenza la competenza delle corti statunitensi nel giudicare la legittimità della detenzione. Assieme all’avvocato tedesco Wolfgang Kaleck, parimenti idealista (basta leggere il titolo del suo ultimo libro: Con il diritto contro il potere; Mit dem Recht gegen die Macht, Hanser, 2015), fondarono lo European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR) di Berlino. Furono loro due a tentare di portare in giudizio Bush, il segretario di Stato Rumsfeld e altri alti funzionari in relazione alle torture ad Abu Ghraib (per il secondo si veda il libro di Ratner, The Trial of Donald Rumsfeld, the News Press, 2008); se in America non ebbero successo, possibilità più concrete sembrarono aprirsi in Europa, con la conseguenza che diversi alti funzionari dell’amministrazione Bush da allora non viaggiano più in Europa e lo stesso Bush nel 2011 annullò un viaggio in Svizzera, in seguito al deposito di una denuncia di 2.500 pagine firmata dai due avvocati. «Il mio lavoro non è impedire alla gente di viaggiare – commentava Ratner – ma è un inizio». Queste sono pochissime delle molte cause seguite da Ratner, le quali per la maggior parte si basavano su fonti di WikiLeaks e fu pertanto logica conseguenza che fosse Ratner ad assumere la difesa di Julian Assange, che oggi lo piange come un combattente per la giustizia nel senso non ideologico, ma umano ed era per ciò fonte d’ispirazione per molti.Ispirare e coinvolgere i giovani avvocati era infatti uno degli obiettivi di Ratner, che in questo investiva molto. Ho avuto la fortuna di appartenere a quel vasto gruppo di giovani avvocati che ha potuto conoscerlo e incontrarlo più volte (da ultimo lo scorso autunno), sia durante che dopo il mio internship all’ECCHR.Era sicuramente una persona radicale; a lui, ebreo e difensore di palestinesi di Gaza, un giornalista chiese se avrebbe accettato di difendere anche dei coloni parenti di una vittima dei razzi; rispose di no, non perché non meritassero una difesa, ma perché ci sono molti avvocati disposti ad assistere gli oppressori; il suo compito era assistere gli oppressi. Si poteva non essere sempre d’accordo sulle sue posizioni, ma era difficile non trarne ispirazione nel modo di interpretare la professione forense. Ricordo uno dei tanti workshop all’ECCHR; il tema era il rapporto fra avvocati e attivisti per i diritti umani, come gestire il rapporto con tali clienti e i differenti obiettivi. Prima di concludere la serata andando a vedere il meraviglioso documentario, premio oscar, Citizenfour di Laura Poitras su Edward Snowden, difeso dall’avv. Kaleck, ci venne offerto un momento di dialogo via Skype con l’ex agente dell’NSA dal suo esilio di Mosca. «Quello che ho fatto – ci disse Snowden – non è stato niente di eroico. Ognuno dovrebbe semplicemente fare ciò che sente essere giusto». Era così che Ratner viveva la professione forense, anche quando combatteva contro i mulini a vento; non c’era differenza fra avvocato e attivista, perché essere avvocato significa assumersi la responsabilità di difendere gli interessi degli altri attraverso il diritto. «Oggi lo piangiamo – hanno scritto i colleghi del suo CCR – domani portiamo avanti il suo lavoro».