Il conflitto tra politica e magistratura non sarà ricordato come una nuova "guerra dei trent’anni": di primavere ne ha già contate almeno 35. Prendiamo un editoriale a caso, vergato su un giornale di partito, nel quale si afferma che una «serie nutrita» di arresti è stata decisa «in modo da provocare effetti obiettivamente destabilizzanti sul sistema politico e finanziario». Chiunque se lo immaginerebbe recente, roba dell’ultimo decennio o giù di lì. Trattasi invece dell’Avanti!, glorioso quotidiano del Psi, in data 1980, dopo l’arresto del "banchiere di dio" Roberto Calvi. Dando un’occhiata dall’altra parte della barricata, si scopre facilmente un’indignata denuncia di segno opposto: «L’indipendenza della magistratura ha subìto il più grave attacco dalla Costituzione a questa parte». Merce comune, ripetuta tante volte che nemmeno ci si fa più caso. Però quando a scriverla tra i primi, nel luglio 1981, era il deputato e dirigente del Pci Ugo Spagnoli, uomo chiave dell’alleanza tra Pci e toghe, l’accorata requisitoria un certo effetto ancora lo faceva.Il terrorismoLo scontro tra politica e magistratura data da allora. Non che nei sanguinosi anni 70 i conflitti scarseggiassero, ma erano di stoffa diversa: riflettevano fedelmente quelli tra i partiti, in particolare tra Dc e Pci. Di conseguenza i magistrati erano di volta in volta, a seconda delle circostanze e degli schieramenti, i tutori della legalità osteggiati dal Palazzo e gli armigeri del Palazzo che per interessi di fazione della legalità facevano strame.Le cose cambiano proprio alla fine degli anni 70. Bloccata dai veti incrociati e dalla debolezza intrinseca di un sistema già agonizzante, la politica della tarda prima Repubblica aveva abdicato a una quantità sempre più corposa di scelte, delegandole alle sentenze. Il fronte allora più rovente di tutti, quello della lotta al terrorismo, era stato affidato in toto alla magistratura. Il potere togato aveva così smesso di supplire alla latitanza della politica solo con le sentenze per invadere senza più remore la sfera del potere legislativo. In nome della lotta al terrorismo, erano i magistrati, non il Parlamento, a stabilire quali leggi andassero approvate, e come modulate.A cavallo tra i 70 e gli 80 una magistratura ormai autonomizzatasi dalla tutela delle forze politiche inizia a stringere di fatto un’alleanza con il principale partito d’opposizione, il Pci. Non è quella infiltrazione delle "toghe rosse" denunciata con notevole superficialità da Berlusconi per una ventina d’anni e passa, ma l’asse tra due forze distinte, animate da interessi convergenti e nemici comuni: un matrimonio d’interesse.Speculare all’alleanza tra Pci e potere togato è la crescente tensione e conflittualità tra quest’ultimo e il Psi craxiano. Non si trattava della naturale "autodifesa" di un partito ladrone, come viene oggi dato comunemente per assodato. Anche se nessuno se lo ricorda, Craxi aveva impugnato la "questione morale" addirittura quattro mesi prima della celebre intervista di Berlinguer e le reazioni del Psi alla scoperta della loggia P2 erano state severissime. Ma la forma (e la deformazione) mentale del "Cinghiale" lo portava a leggere tutto con le lenti della contrapposizione politica amico/nemico. All’avvicinamento tra Pci e magistratura non poteva che corrispondere un’impennata dell’ostilità socialista nei confronti delle toghe.I socialisti chiedevano essenzialmente due riforme: il diritto del Pg di avocare a sé le inchieste e soprattutto la responsabilità civile dei magistrati. Per il Csm si trattava di un attentato all’indipendenza dei giudici. Per il Pci pure. Così le frizioni si moltiplicarono, con un presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che faceva puntualmente scudo ai magistrati.Ma nell’85 al Quirinale non c’è più Pertini e il successore, Francesco Cossiga, ingaggia un braccio di ferro con il Csm che proseguirà per tutta la durata del suo mandato presidenziale. E’ giusto il caso di ricordare che i temi sui quali il Picconatore martellava erano gli stessi che il ministro Orlando intenderebbe oggi affrontare nella riforma del Consiglio superiore della magistratura. All’epoca Cossiga lo fecero passare per pazzo. Si vede che in quella pazzia un po’ di metodo c’era.Palazzo dei MarescialliNel dicembre ‘85 il Csm mette all’ordine del giorno una mozione di censura contro Craxi, presidente del Consiglio, reo di aver pesantemente criticato i magistrati per la gestione del processo per l’omicidio del giornalista socialista Walter Tobagi, ucciso da un gruppo armato rosso nell’80. Cossiga, in veste di presidente del Csm, proibisce la riunione e arriva a minacciare l’intervento dei Carabinieri contro i consiglieri, ove insistessero nel dar seguito alla discussione. Il Pci, sia pur in via riservata lo spalleggia. Il giudice costituzionale Malagugini e il capogruppo al senato Perna incontrano il capo dello Stato, lo invitano a non mollare «sennò quelli lì ci travolgono», ma anche a muoversi con prudenza per evitare traumi istituzionali. Lo stesso avvicinamento del Pci alle toghe non fu un processo lineare ma oscillante, progressivo e contrastato.Da allora è tra il Colle e palazzo dei Marescialli è una continua guerriglia latente, che esplode fragorosamente tra il 1990 e il ‘91. Il Csm istituisce una norma che di fatto vieta ai magistrati l’iscrizione alla massoneria. Cossiga la critica ma non riesce a impedirla. Il Consiglio, nel dicembre del ‘90, mette all’ordine del giorno una discussione sul conflitto tra il magistrato Felice Casson e il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli, seguito alla richiesta del pm di interrogare lo stesso presidente della Repubblica su Gladio. Cossiga vieta la discussione. Nel maggio successivo il capo dello Stato arriva a revocare la delega dei pieni poteri al vicepresidente del Csm Galloni, caso unico nella storia della repubblica. In mezzo scioperi dei magistrati, dimissioni dei membri togati del Consiglio, messaggi del presidente della repubblica alle Camere, fiammate sempre più ustionanti nei rapporti tra Colle e Pci, poi Pds, schierato sempre più nettamente con le toghe.Il referendumMa "in mezzo" c’era stato anche altro: il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei giudici. A metà decennio, Craxi decise di schierarsi con i radicali e di proporre un referendum che limitasse il potere già quasi incontrollato della magistratura. L’obiettivo era rimodellare il ruolo del pm, che cumulava (e cumula) i ruoli della direzione delle indagini e dell’accusa. Ma per quanto le teste d’uovo si sforzassero, una via per tradurre la questione in quesito referendario non la trovarono. Ripiegarono sulla responsabilità civile.Quando si votò, nell’87, sullo sfondo campeggiava Enzo Tortora, popolarissimo presentatore portato via in schiavettoni, a lungo detenuto, condannato in prima sentenza e poi assolto per le accuse di un pentito la cui falsità si sarebbe potuta appurare in pochi giorni. I sì trionfarono. Peccato che nel giro di appena quattro mesi proprio Craxi rovesciò il verdetto popolare con una legge, firmata dal guardasigilli socialista e giurista di chiara fama Vassalli, che restituiva ai togati l’impunità. L’ammissibilità dei ricorsi doveva essere vagliata dalla corte d’Appello. Gli eventuali rimborsi erano previsti solo nei casi estremi di colpa o dolo grave e non erano più a carico dei " responsabili" ma dello Stato, che poteva poi scegliere se rivalersi sui magistrati per una cifra non superiore a un terzo dello stipendio annuo.Craxi ammise poi di aver tradito il referendum perché trascinato dalla fiducia e da una certa soggezione reverenziale nei confronti di Vassalli, che al referendum era stato sin dall’inizio ostile: «Giuliano si fece purtroppo prendere la mano dai magistrati che affollavano il ministero della Giustizia e che intendevano proteggersi dagli effetti del referendum». Ci riuscirono alla grande. Le statistiche offerte dal ministro Orlando sono eloquenti: «Dal 1989 al 2012 su 34 casi di denuncia accettati dalla Corte d’Appello con il filtro della Vassalli sono state emesse solo 5 condanne». I 34 casi in questione rappresentano l’8,5% dei ricorsi. Non risulta peraltro che neppure in quei pochissimi casi il rimborso sia stato addossato al magistrato.Il QuirinaleUna memoria storica rimodellata ad arte ha trasformato il conflitto tra politica e magistratura negli anni 80 in un’aggressione sguaiata contro l’indipendenza della magistratura da parte di capo dello Stato pazzo e di un partito di ladroni. Ma Cossiga non era un folle e i nodi che metteva in luce erano tanto concreti quanto giuridicamente sottili. Sia pure a colpi di piccone, mirava a definire il ruolo e i limiti del Csm.Nulla a che vedere con le farneticazioni di questi giorni sul diritto dei magistrati a schierarsi in materie come il referendum o altre opzioni politiche. Il Picconatore era netto nel sostenere il diritto a esprimersi dei singoli magistrati. Quello che voleva evitare era che le prese di posizione venissero assunte dal plenum del Csm in quanto organo istituzionale. Mirava a bloccare il processo che stava trasformando il Csm nella "terza Camera", delegata di fatto a legiferare in materia di giustizia e autorizzata a incidere sul tutta l’attività legislativa. Sosteneva, in punta di diritto, che il ruolo dell’organo di autogoverno della magistratura dovesse essere amministrativo e non potesse pertanto assumere competenze "legislative". Temi che, se il governo Renzi avrà davvero il coraggio di affrontare la riforma del Csm, si riveleranno ancora più attuali di allora.Perché gli anni 80 non sono stati, come oggi sembrerebbe, una sorta di lungo prologo alla guerra guerreggiata dei decenni successivi. Al contrario, è stato quello il solo momento in cui il confronto tra il potere politico e quello in toga non si è sviluppato in una situazione pesantemente condizionata dalla cronaca giudiziaria. L’ultima fase, almeno sinora, in cui non si è potuto trivializzare quel confronto dipingendolo come una sfida tra chi dà la caccia ai corrotti e un’accozzaglia di lestofanti.