Dopo otto anni e mezzo, la Cassazione scrive la parola fine al processo Thyssen, confermando tutte le condanne pronunciate in appello. Una decisione che arriva nonostante il procuratore generale avesse chiesto di annullare tutto e di rinviare i sei manager, per la seconda volta, davanti alla Corte d’Appello per una nuova quantificazione delle pene, definite «troppo alte».Durante l’udienza di ieri al Palazzaccio, solo uno dei sei manager della Thyssen imputati era presente in aula, davanti ai giudici della quarta sezione penale. Daniele Moroni, condannato in appello a sette anni e sei mesi, ha incassato in silenzio la rabbia delle vittime. «Mio figlio è bruciato vivo. Spero che bruci anche la sua famiglia», gli ha urlato in faccia la madre di uno dei sette operai morti nel rogo allo stabilimento torinese. «Venduti, bastardi», sono state le grida che hanno accompagnato l’uscita dall’aula dei familiari degli operai, dopo aver ascoltato la richiesta del sostituto procuratore Paola Filippi. Parole di irritazione contro la richiesta del pg sono arrivate in giornata anche dal sindaco di Torino, Piero Fassino, che ha definito quella della procura generale «Una decisione che rinnova l’atroce dolore delle famiglie e suscita irritazione e amarezza. Chiedo che non si rinunci a rendere giustizia a chi ha visto morire in modo così atroce i propri cari». Quella di ieri è stata la seconda volta del procedimento sul rogo all’accaieria Thyssen di Torino davanti ai giudici della Cassazione che, già nella sentenza del 2015, avevano ordinato alla Corte d’Appello di ricalcolare le pene per gli imputati.Ora che è tutto finito, si deve guardare indietro. Sono passati otto anni e mezzo da quel 6 dicembre 2007 in cui otto operai vengono investiti dalla fuoriuscita di olio bollente sulla linea 5 dell’accaieria, che prende immediatamente fuoco. Uno di loro, Antonio Schiavone, 36 anni, muore appena arrivato in ospedale. Dopo di lui, altri sei perdono la vita. L’unico sopravvissuto è Antonio Boccuzzi, ora deputato del Partito Democratico. Il rogo - si è scoperto durante le indagini - non è stato causato da un’imprevedibile fatalità: la linea 5, quella della “ricottura e decapaggio”, è considerato ad alto rischio incendio e le misure di sicurezza prevedono estintori e sistemi di spegnimento automatico. Quando l’incendio si scatena, a causa della poca manutenzione dei macchinari e della presenza di pozzanghere d’olio a terra, gli estintori sono scarichi, gli idranti funzionano male. Le indagini della procura di Torino si concludono in meno di un anno e nel 2008 il gup rinvia a giudizio tutti i dirigenti della Thyssen, contestandogli l’omicidio volontario con dolo eventuale e incendio doloso. Un’imputazione pesantissima, quella presentata dal pm, e mai accolta prima per i dirigenti di aziende nel caso di incidenti sul lavoro. Nel 2011 arriva per i sei manager la condanna in primo grado: la più pesante, per l’amministratore delegato dell’accaieria Harald Espenhahn, a 16 anni e 6 mesi, la più lieve a Moroni, a 10 anni e 10 mesi. Chiusa, invece, la controversia relativa al risarcimento del danno per i familiari delle vittime: la Thyssenkrupp ha pagato 13 milioni di euro ai parenti degli operai, che non si sono costituiti nel processo, e 4 milioni alle altre parti civili. La Corte d’Appello, però, respinge l’ipotesi che si sia trattato di omicidio volontario e riformula l’imputazione in omicidio colposo, condannando gli imputati a pene comprese tra i 7 e i 10 anni. Nel 2014, la Cassazione conferma in via definitiva l’imputazione di omicidio colposo, ma rinvia gli atti alla Corte d’Appello di Torino, per la rideterminazione delle pene. Con la sentenza di ieri si è concluso il secondo ricorso in Cassazione, che ha confermato le condanne riquantificate dalla corte d’Appello nel 2015: condanne per Espenhahn a nove anni e otto mesi, per i dirigenti Marco Pucci e Gerald Priegnitz a sei anni e dieci mesi (dai sette anni iniziali), per Daniele Moroni a sette anni e sei mesi (dai nove anni iniziali), per l’ex direttore dello stabilimento Raffaele Salerno, a sette anni e sei mesi (due mesi in meno), sei anni e otto mesi per il responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri (otto anni). Una fine amara, per un dramma di morte da lavoro tra le più tragiche della storia recente.