Léaud. Jean-Pierre Léaud. L’alter ego di Francois Truffaut andrà a Cannes a prendere la Palma d’Onore, in quello stesso festival messo a ferro e fuoco dal suo mentore nel suo periodo più rivoluzionario. Una bella soddisfazione, per lui che da decenni porta in giro quella faccia affascinante, un po’ da villain sciupafemmine e un po’ da giovane vecchio che poco o forse per nulla ricorda l’Antoine Doinel che ha portato il cinema, con una corsa, nella Nouvelle Vague che l’avrebbe cambiato radicalmente. Pochi giorni fa, al Valdarno Cinema Fedic, bella rassegna di cinema indipendente diretta da Simone Emiliani, in una delle lezioni del penultimo giorno, è stato proiettata al Masaccio proprio quell’ultima sequenza. Una partita di calcio e poi quel ribelle, viso scolpito nell’inquietudine e occhi di fuoco, tenerezza e dolore ingabbiati dentro un corpo troppo piccolo per riuscire a sconfiggere il mondo degli adulti, se ne va. Corre, forte. E Truffaut lo segue, con una regia fluida e ruvida, con un occhio che non si perde mai oltre, ma rimane su quella spinta vitale e inevitabile. Fino al freeze frame e lo sguardo in macchina, fino al mare. L’adolescenza, così bene, non l’avevano raccontata mai né probabilmente riusciranno a farlo. La metafora della rivolta allo status quo più bella, potente, naturale. E se il regista era determinante – proprio a Valdarno è stato detto “Godard ha messo una bomba davanti a un cancello chiuso, ma è Truffaut che l’ha attraversato ed è arrivato fino alla fine del percorso di rivoluzione” -, non possiamo prescindere da quel piccolo grande attore. Non possiamo farlo perché Cannes lo incorona con una Palma d’Onore non solo in quanto icona in quella pellicola indimenticabile, in quel capolavoro assoluto, ma perché front-man di un movimento culturale, intellettuale, artistico. Se Truffaut ha trasferito in lui se stesso, fino a un’identità divenuta creativa e umana, Godard gli ha consegnato la consapevolezza di essere attore e non solo strumento, con Il maschio e la femmina e La storia americana, La cinese, con il suo diventare adulto di fronte a una macchina da presa. Godard fu persino crudele nell’indagarne l’espressiva fragilità, in sei anni in cui il Maestro praticamente lo sequestrò per averlo nelle sue pellicole, forse anche per togliergli di dosso il marchio dell’amico, sodale e rivale Francois, che saprà però renderlo di nuovo suo nel bellissimo Baci rubati. In quegli anni, i meravigliosi e dolenti Sessanta, Lèaud era la perfetta fotografia di una generazione a orologeria, pronta a esplodere, a cercare di cambiare il mondo, per rimanerne delusi. E di una corrente di pensiero e di artisti pronti a essere l’avanguardia di quest’avanzata.La forza di Jean-Pierre Léaud e del suo Antoine Doinel, era questa. In quel film, in quel ruolo, in quei giorni in cui lo spiamo c’è tutto: l’illusione, il dolore, il sogno, la lotta, la delusione. I 400 colpi ci spoglia delle ipocrisie, ci immerge nelle nostre paure e nelle nostre contraddizioni, ci rischiara il tunnel della nostra emotività e ci mostra quanto sia difficile attraversarlo. Non è consolatorio, proprio come non lo è il viso, non lo sono i lineamenti di questo interprete. Capace di entrare in personaggi diversi ma anche di inchiodarci a un disagio profondo, per le mani e gli sguardi più diversi: Pasolini, Cocteau, Skolimowski, Glauber Rocha, entrando a gamba tesa in un’altra rivoluzione politica e artistica, quella della Settima Arte brasiliana. Nel Leone a sette teste, poi, affronta l’avventura più pazza: un’opera priva di trama che gli consegna la scena finale più delirante in cui lui, Preacher, prete ribelle, crocifigge Rada Rassimov in una delle scene più belle del cinema moderno, pur se inserita in una delle opere meno riuscite del maestro. Simbolo di due rivoluzioni, insomma, ma anche un attore che ha visto una lunga fase di successi per poi entrare nel dimenticatoio, a causa di quei manierismi e di quell’enfasi che, in vecchiaia, lo hanno penalizzato. Perché era troppo grande lui per quei vezzi e troppo piccolo il cinema post Truffaut, diventato pauroso dopo aver tentato di mettere a piedi all’aria il mondo. E poi se il tuo padre cinematografico, dopo averti rinchiuso dentro Doinel, ti lascia troppo presto, nel 1984, tu non puoi non subirne le conseguenze.Ma Lèaud, e forse questo ha pesato su un’esistenza tormentata e sui suoi 71 anni, era già leggenda. Non era più un attore normale, ma un mito. Con abbastanza talento per attraversare la rivoluzione che aveva contribuito ad aprire, ma non abbastanza faccia tosta per superarla, magari tradirla.E Cannes, tardivamente, riconosce il suo posto a chi ha contribuito a renderla grande, persino combattendola. E poi, però, percorrendo la Croisette, dopo la battaglia. Ci arriva tardi, perché il giovane e bravo Carlo Chatrian, a lui, ci aveva pensato già. Due anni fa, quando gli diede un applauditissimo Pardo alla Carriera a Locarno. Poco prima de I 400 colpi proiettati in Piazza Grande. Su uno schermo che pure Cannes invidia. In ogni caso, meglio tardi che mai anche se persino questa Palma d’Onore denuncia la crisi di fantasia in cui sta precipitando il più grande festival cinematografico del mondo. Per budget, ospiti, indotto, autori presenti. Ma non per le idee.