Sono molte le partite che si giocano intorno alle elezioni di giugno a Roma, e non sempre quelle maggiormente in vista sono le più rilevanti. Sui media la serie di incontri bilaterali con tutti i candidati inaugurata dal presidente del Coni Giovanni Malagò non godrà dell’attenzione sin qui concentrata sulla girandola ebbra delle candidature partorite dall’ex Pdl. Però è ben più rilevante. La posta in gioco conclamata è la candidatura della Capitale per i giochi olimpici 2024, ma sullo sfondo campeggiano interessi ancora più cospicui: quelli del blocco di potere che a Roma fa da sempre il bello e soprattutto il cattivo tempo.La candidatura di Roma per le Olimpiadi 2020 fu bocciata dal governo Monti: il costo di 13 miliardi previsto pareva un tantinello esagerato. La candidatura per il 2024, invece, trova nell’attuale presidente del consiglio lo sponsor più convinto. Il preventivo squadernato nel febbrario scorso dal presidente del comitato organizzatore Luca Cordero di Montezemolo lo conforta. L’esborso risulta più che dimezzato: appena 5 miliardi e mezzo. Due miliardi e spiccetti dovrebbero finanziare la costruzione degli impianti permanenti, un villaggio olimpico da 17mila posti e il Media Center, gli altri 3 miliardi e passa serviranno invece a coprire le spese “temporanee”: una bazzecola. Malagò esulta: «È uno dei budget più bassi nella storia dei giochi estivi».I conti sono in realtà furbetti. Il comitato organizzatore si è essenzialmente limitato a depennare dalla lista una serie di spese che erano state invece calcolate nel preventivo per il 2020 e che sono tuttavia imprescindibili, come quella per garantire i traporti con la zone dove è prevista la costruzione del Villaggio, a Tor Vergata. In più, la nota spese mette già in preventivo uno sforamento del budget pari al 35%. Così, nel complesso, la spesa si riavvicina ai 13 miliardi di euro originari.Per gli atleti e per i romani forse sarà una festa e forse no, in compenso per i palazzinari sarà un’orgia. L’esperienza delle città che hanno sin qui ospitato i giochi non è rassicurante. Anche senza arrivare allo sforamento record dell’800% di Sochi, i più parchi giochi invernali di Grenoble hanno gravato sui contribuenti per un paio di decenni e mezzo e ai canadesi è andata anche peggio mentre a Barcellona appena un po’ meglio.Ma il vero punto dolente è che Roma non è la Svizzera e neppure il Canada. A Roma lo sforamento stratosferico dei budget è la norma, non l’eccezione, e l’abitudine a lasciare le opere incompiute dopo aver rimpinguato i feudatari del cemento è da record. Certo un po’ di fede nella vita è necessaria e i miracoli qualche volta capitano davvero. Ma per evitare che la saga delle Olimpiadi finisca come tutti i precedenti casi dovrà trattarsi di un miracolo bello grosso.Rinfrescare la memoria con un paio di esempi può servire. Mondiali di nuoto 2009: le tre grandi piscine di Ostia, Valco San Paolo e Pietralata dovevano costare 30 milioni e servire il popolo natante per decenni. Ne costano 50 e i primi due chiudono venti giorni dopo la fine delle gare. Le “Vele” di Tor Vergata, progettate per la medesima occasione, dovevano costare 60 milioni. Poi i lavori, affidati Caltagirone sotto la supervisione di quel geniaccio di Bertolaso, lievitano fino a 660. Troppi. Dopo averne buttati, pardon regalati ai costruttori, 240 i lavori vengono interrotti a metà e la gara di nuoto viene spostata nel buon vecchio Foro Italico.Il “caso di scuola”, quando si parla di grandi opere a Roma non sono però i mondiali di nuoto ma la Metro C. I lavori iniziano nel 2007. In base alla legge Lunardi, una jattura con pochi precedenti, vengono affidati al “contraente generale”, cioè la ditta o il consorzio che, ottenuto l’appalto, deve occuparsi di tutto con piena autonomia e consegnare il prodotto finale, “chiavi in mano”, rigorosamente nei tempi prestabiliti. In questo caso il contraente è un consorzio di tre imprese e due cooperative, nel quale la fetta più grossa spetta a Caltagirone. Il termine rigido è il 2011. Il preventivo, anche quello a garanzia di non sforamento, è di due miliardi e 700 milioni, addirittura inferiore alla spesa messa in preventivo dal committente, Roma Metropolitane.Addì 2016 il grosso dei lavori in termini di chilometraggio è compiuto, sia pure con tre e quattro anni di ritardo rispettivamente sulla prima tratta, aperta nel 2014, e sulla seconda, in funzione dal 2015, e con un incremento delle spese pari a un miliarduccio. Solo che gli ultimi 4 km sono anche quelli più importanti e complicati: comprendono la stazione di San Giovanni, che dovrebbe permettere il raccordo con la linea A, e le stazioni del centro. Il presidente di Roma Metropolitane Paolo Omodeo Salè è ottimista: «La metro C arriverà a San Giovanni nel 2017, a Colosseo nel 2021 e a Farnesina nel 2024. Purché il governo nomini un commissario».Difficile dire di quanto sarà lievitata la spesa rispetto al low cost iniziale: i pessimisti calcolano 6 miliardi, ma ci sono anche quelli che vedono rosa e sono certi che non si andrà oltre i 4 miliardi in più. Sempre che il governo nomini un commissario. E’ opportuno segnalare che il giro d’affari di Mafia Capitale, rispetto a quello della Metro C, è una goccia nel mare: un centinaio di milioni d’euro. Argent de poche.Date le premesse, temere che le Olimpiadi a Roma finiscano in un inno ai lanzichenecchi più che a De Coubertin è il minimo. La determinazione dei palazzinari e di tutto quel blocco di potere e affari che ruota intorno ai “circoli canottieri” però è ferrea. Subito dopo la defenestrazione, l’ex sindaco Marino la addebitò allo scontro con Montezemolo e Malagò sull’opportunità di costruire il villaggio olimpico a Tor Vergata. Magari il marziano esagerava un po’: però non troppo. E’ un fatto che, rispedito lui sul pianeta rosso, nessuno ha più messo in discussione Tor Vergata.La partita delle Olimpiadi 2024, già molto più che significativa in sé, è tuttavia solo uno dei tanti esempi del vero nodo scorsoio che, ben più di tutte le mafie capitali, ha strangolato la prima città d’Italia: il potere assoluto che esercitano i suoi signori e padroni, i palazzinari che quasi sempre sono anche proprietari dei terreni dove loro stessi costruiscono, e l’eterna subordinazione della politica ai loro voleri. Su questo, e quasi solo su questo, andrebbe giudicato chi si candida a primo cittadino di Roma. Su quali impegni assume in materia e su quali garanzie di rispettarli offre.Sin qui i poli che hanno occupato la scena politica per vent’anni hanno gareggiato in ossequio e in servilismo. Due esempi per tutti. Nel 2008 la Giunta Veltroni vara il piano regolatore che comporta la creazione di 18 “centralità”, inseguendo il miraggio di una “città policentrica”. Renato Nicolini lo definisce lapidario «il peggiore nella storia». Comporta costruzioni pari a 70 milioni di mq di cemento, circa la metà dei quali su terreni di proprietà dei signori del mattone ai quali viene affidato poi anche la costruzione. Il Piano prevede che solo l’11% delle cubature sia destinato a scopo abitativo, per evitare la trappola eterna del quartiere ghetto. Subito dopo, però, gli “accordi programma”, che consentono la deroga al Piano, rovesciano il prospetto e riservano le costruzioni quasi solo a fine abitativo. In cambio i costruttori si impegnano a sborsare qualcosa di tasca loro per “contribuire alla realizzazione del trasporto pubblico”: problemino in effetti nevralgico in una metropoli che, essendosi allargata a macchia d’olio secondo il criterio della convenienza per pochi invece che della razionalità urbanistica, è di oltre un terzo più grande di New York City ma conta 5 milioni di abitanti in meno e quanto a mezzi pubblici compete con un capoluogo di provincia. Alemanno battezzerà più tardi il mercimonio, cemento in cambio di servizi, “moneta urbanistica”.Solo che la “moneta urbanistica” viene poi centellinata, mentre la colata di cemento arriva tutta. Report denuncia il sacheggio. L’assessore Morassut s’indigna e querela. Il giudice archivia e anzi censura l’assessore segnalando che «quasi tutti gli aspetti denunciati dall’inchiesta corrispondono a verità». Per capire come sia andata a finire basta farsi un giro nelle “centralità” principali, come Romanina o Porta di Roma o quel monumento ai padroni di Roma che è Ponte di Nona, dove ogni strada ha il nome di un costruttore e il viale centrale è dedicato a Francesco Caltagirone.Fare peggio del centrosinistra era difficile. La giunta Alemanno è andata a un pelo dal riuscirci. La leva, in questo caso, si chiamava housing sociale: costruzione di appartamenti a basso prezzo per le famiglie senza casa. Una festa, ma per i palazzinari non per i senza tetto: la distinzione tra gli appartamenti davvero in housing e quelli a fitto normale era vaga e tale da permettere che solo una esigua minoranza delle nuove costruzioni servisse allo scopo ufficiale. Inoltre le palazzine avrebbero dovuto sorgere nei cosiddetti “ambiti di riserva”, sottratti ai vincoli del Piano regolatore: quasi tutti nell’Agro romano, che è la preda cui mirano i costruttori da sempre. Alemanno, fattosi eleggere promettendo di impugnare di fronte al Tar il piano di Veltroni, una volta insediato ha portato invece da 70 a oltre 100 i milioni di mq cementificabili e come ultimo atto del suo governo si è imbarcato in una seduta del consiglio comunale durata giorni, con all’odg l’approvazione di addirittura 40 delibere, tutte cementifanti, tra cui il progetto folle di abbattere e ricostruire per intero, con 20 ettari edificabili in più, Tor Bella Monaca.Di fronte ai palazzinari, la politica a Roma ha sempre ripiegato. Senza sottovalutare l’impatto della corruzione e della criminalità, il piatto forte è stato divorato non nella stazione di servizio di Corso Francia che Massimo Carminati adoperava come studio, ma nei circoli canottieri. Candidati sindaci che si prendessero appena un po’ sul serio di questo e non di tutt’altro dovrebbero trattare.