Tutti i grandi leader politici hanno avuti momenti alti, forti intuizioni, e poi fasi di appannamento e di ripiego.Prendete Togliatti: grandioso nella svolta di Salerno, e poi di nuovo guida nelle lotte dei lavoratori dei primi anni sessanta e autore del memoriale di Yalta. In mezzo però c’è l’Ungheria, la difesa della barbara invasione russa: pagina nera della sua biografia politica. Oppure prendete De Gasperi, protagonista della ricostruzione dell’Italia, che però sbagliò clamorosamente a volere la legge elettorale detta legge-truffa, nel ‘53, e perse. O Pietro Nenni, protagonista della lotta antifascista e poi geniale regista del centrosinistra. Ma fu lui a volere il Fronte Popolare che nel ‘48 fu travolto dalla Dc.Eccetera.Enrico Berlinguer ha due momenti altissimi nella sua “produzione politica”. Il primo è compromesso storico, che gli permette tra il ‘78 e il ‘79 di dare all’Italia riforme epocali come quella sanitaria, quella psichiatrica, l’equo canone, i patti agrari, l’aborto, lo stato di famiglia (e pochi anni prima il punto unico di scala mobile e i divorzio). Il secondo “picco” del berlinguerismo è la lotta a difesa della scala mobile dei salari operai, nel 1984, poco prima della morte. Naturalmente ciascuno può considerare di avanguardia o di retroguardia queste due stagioni berlingueriane - una premiata da molte vittoria, l’altra da una sonora sconfitta - tuttavia furono indubbiamente il culmine del berlignuerismo.A metà tra questi due periodi, e cioè nei primi anni ottanta (dopo la rottura dell’alleanza con la Dc, dovuta anche alla morte di Aldo Moro) c’è il Berlinguer che punta tutte le sue carte sulla questione morale. E’ il Berlinguer più debole, più spaesato. Ha appena abbandonato la strategia dell’alleanza con la Dc, che ha portato a pessimi risultati elettorali, e lo ha fatto precipitosamente e senza strategia. Ora cerca una strategia per traghettare a sinistra - e su una posizione isolata - un partito che almeno da 10 anni aveva definito la politica delle alleanze e la ricerca del governo come centro di gravità permanente.La strategia però non c’è e questo spinge Berlinguer a sollevare la questione morale, anche per frustare il suo partito, che in periferia ancora governa con la Dc e con i socialisti, e che in parte si è trasformato in un partito di potere - di amministratori - e Berlinguer vuole che si scrolli di dosso il potere e l’amministrazione.Il Berlinguer che oggi viene esaltato per il suo rigore morale e per il suo moralismo (cioè quello dell’intervista a Scalfari), era un Berlinguer debole e di passaggio (tra l’altro in quegli anni il Pci era ancora abbondantemente finanziato da Mosca, mentre il suo segretario aveva già iniziato il difficile strappo che porterà all’approdo del partito sulla riva democratica e liberale). Il Pci è uscito dal governo di solidarietà nazionale (Andreotti quarto) nel 1979, e l’anno dopo, nel novembre del 1980, durante una conferenza stampa a Salerno Berlinguer (senza consultarsi con la Direzione del partito) aveva decretato la fine della strategia del compromesso storico.A quel punto nasce il problema di disegnare una nuova identità del partito, e li si costruisce l’idea della “diversità morale” dei comunisti. Berlinguer trova delle resistenze nel partito. Un mese dopo l’intervista a Scalfari (che è del luglio 1981) è Giorgio Napolitano a contestare la questione morale e la “diversità” comunista con un articolo sull’Unità. E si apre una battaglia politica che ha un esito incerto fino all’inverno del 1984, quando il taglio della scala mobile, deciso dal governo Craxi, spinge di nuovo il Pci a schierarsi sul fronte della battaglia sociale e a recuperare un suo profilo operaista.La questione morale a quel punto torna in secondo piano.