"In Italia non c’è libertà di stampa". O comunque ce ne è pochissima. Lo dice il rapporto annuale di “Reporter Sans Frontiers” nel giorno (ieri) dedicato dall’Onu alla celebrazione della libertà di stampa.Davvero è così? Davvero l’Italia è settantasettesima in classifica, dietro a tutti i paesi europei e occidentali (esclusa la Grecia) e dietro a molti paesi africani e latino americani (scavalcata quest’anno anche da Haiti, dalla Serbia e dal Senegal) e negli ultimi mesi ha perduto altre quattro posizioni?No, non è vero. E tutti lo sanno. Così come non è vero che la libertà di stampa è molto limitata in paesi come gli Stati Uniti e la Francia (che secondo questa classifica meritano rispettivamente il quarantunesimo e il quarantacinquesimo posto, appena un po’ meglio solo di Italia e Grecia nel mondo libero, ma lontanissimi dal mitico giornalismo costaricense o giamaicano o estone o uruguagio). No, Stati Uniti e Francia sono tra i paesi leader del giornalismo moderno.Insomma: balle. E la cosa che più preoccupa e che tutti vanno appresso a queste balle. Qualche anno fa si sapeva il perché: perché questa classifica era la prova provata che quello di Berlusconi era un regime illiberale e oppressivo. Ora però Berlusconi non è più al governo e dunque tutta questa retorica è abbastanza inutile.Non è inutile invece ragionare sulla libertà di stampa in Italia e sui suoi veri problemi. Che esistono eccome. Sicuramente il giornalismo italiano, e il sistema dell’informazione del nostro Paese, non meritano il 77esimo posto in classifica (forse meritano il ventesimo o qualcosa del genere). Altrettanto sicuramente esiste da noi un problema di libertà e di “apertura” della stampa e del giornalismo molto più grande di quello che c’è in altri grandi paesi liberali, come appunto gli Stati Uniti e la Francia, o anche la Germania, la Gran Bretagna, la stessa Spagna. Perché?Ecco, la questione è questa. I parametri che vengono usati nelle classifiche di “Reporters Sans Frontieres” non funzionano. Basta dire che il motivo per il quale l’Italia è considerata un Paese a rischio per i giornalisti è la forte presenza della mafia e della criminalità organizzata. Che minacciano, intimidiscono, puniscono e ricattano i giornalisti.Davvero è così? No, non è così da molti anni, e sostenere che oggi i giornalisti italiani siano minacciati dalla mafia è mancare di rispetto a quei giornalisti che venti o trent’anni fa davvero si battevano per una informazione libera dai poteri criminali, e rischiavano, e pagavano. Venivano discriminati nei giornali, emarginati, isolati, talvolta uccisi dalle cosche. Basta ricordare, per esempio, Peppino Impastato, palermitano, 30 anni, che lavorava per una piccola radio, ucciso dalla mafia (dal clan Badalamenti) con una bomba la notte del 9 maggio del 1978 (lo stesso giorno esatto nel quale venne ucciso Aldo Moro); oppure Pippo Fava, catanese, 59 anni, assassinato dal gruppo dei Santapaola il 5 gennaio del 1984, anche lui per le sue inchieste giornalistiche scomode; così come successe l’anno dopo a un ragazzino impertinente napoletano, Giancarlo Siani, ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985. E come successe a Mauro Rostagno, uno dei maggiori leader del ‘68, che poi se ne andò in Sicilia e fu ucciso dalla mafia, a 46 anni, nel settembre del 1988.Oggi non è più così. Si può fare retorica finché si vuole, ma negli ultimi anni, per fortuna, non c’è stato nessun giornalista che è stato aggredito dalla mafia o dalla camorra. Non è volato neppure uno schiaffone. Ho vissuto per tre anni in Calabria, e una sola volta ho assistito ad una intimidazione seria: è stata contro il giornalista di Calabria Ora, Ilario Filippone, al quale hanno bruciato la macchina. Ilario – che ora lavora al Messaggero – è uno dei pochissimi giornalisti che le inchieste le fa davvero, non sta ad aspettare i fogli dalla Procura. La verità vera è che tutto il giornalismo antimafia non è più giornalismo d’inchiesta ma consiste solo nel pubblicare le carte della Procura. E chiunque capisce che non è molto pericoloso. Che vuoi che gli interessi al mafioso di una inchiesta giornalistica se la sua storia è già finita nelle mani dei magistrati?Se continuiamo a pensare che sia la mafia a mettere in discussione la libertà di informazione sbagliamo del tutto obiettivo. E non aiutiamo la libertà di informazione (tantomeno aiutiamo la lotta alla mafia).C’è un problema di libertà di stampa, in Italia, ed è legato alla assenza di editori. Naturalmente è difficile che questo problema sia portato in primo piano, messo in evidenza, dal momento che agli editori - che sono quelli che costituiscono il problema – non interessa molto sottolineare i propri conflitti di interesse né le proprie posizioni di monopolio. È molto più semplice dire che è tutta colpa della mafia, e oltretutto, così, prendersi un bel plauso popolare e capitalizzare un po’ di indignazione.Chi sono gli editori in Italia? Finanzieri, o fabbricanti di automobili, o di appartamenti (i cosiddetti palazzinari...) o di scarpe, o operatori del commercio e del turismo. Hanno in mano il 90 per cento dei giornali e il 90 per cento degli ascolti in Tv e alla radio. Non solo, ma stanno realizzando nuove operazioni di concentrazione delle testate. Nel silenzio totale.Recentemente si è conclusa la fusione tra due colossi, guidati uno da “Repubblica” e uno dalla “Stampa” di Torino. De Benedetti (finanziere) e John Elkan (costruttore di automobili Fiat) hanno siglato un patto d’acciaio unificando una impressionante forza di diffusione dei giornali in edicola. Il patto è stato benedetto dalla nomina a “Repubblica” di un direttore molto gradito alla Fiat (l’ex direttore della “Stampa”) e non ha mosso nessun interesse da parte degli altri giornali, che sono rimasti silenziosi. Questo patto ha comportato un indebolimento del “Corriere della Sera”, che ora sta rispondendo immaginando una fusione col “Sole 24 Ore” e che comunque, dopo lo sganciamento della Fiat, è alla ricerca di nuovi padroni e di nuovi equilibri.A questi due grandi gruppi editoriali si affianca il gruppo di Caltagirone (costruttore di case e di altri edifici) che controlla il mercato dell’informazione a Roma, a Napoli e in altre città del Sud, e poi c’è il regno di Berlusconi (in parte affiancato da Angelucci, proprietario di cliniche e deus ex machina della sanità privata). L’informazione con un orientamento politico conservatore fa capo a Berlusconi, l’informazione di centro fa riferimento al gruppo del Corriere e a Caltagirone, l’informazione schierata – diciamo così – a sinistra, è dominata dal gruppo “Repubblica”- “Stampa”. Fuori dagli schieramenti, tra i grandi giornali nazionali, resta solo il “Fatto Quotidiano” che è espressione delle procure e quindi da nessun interesse economico specifico.Si può pensare che in queste condizioni viva e prosperi una forte attività giornalistica, libera, forte, combattiva, anticonformista? No. Nessuno è autorizzato a scrivere contro gli interessi materiali dei propri editori, nessuno è autorizzato a fare inchieste vere e a porre la ricerca della verità, dell’oggettività, al centro – e come bussola – della propria attività professionale. È nato così il giornalismo “ a squadre”, il giornalismo di bandiera, balcanizzato, contro il quale qualche anno fa tuonava Umberto Eco (su questo tema abbiamo pubblicato un suo articolo del 2001 proprio sul primo numero del Dubbio).Con una vocina esile esile – perché siamo piccoli, giovanissimi, gracili, ancora un po’ impauriti – vi diciamo che noi, insieme agli avvocati del Cnf, abbiamo deciso di provare questa folle avventura di fare un quotidiano, il Dubbio,  proprio per questa ragione. Gli avvocati del Cnf, che sono gli editori di questo giornale, sono tra i pochissimi editori a non avere interessi materiali da difendere. Sono editori “di idee”, potremmo dire “editori puri”, come succede nelle altre grandi democrazie europee e in America, ma non in Italia. Perché, è vero, in Italia la libertà di stampa esiste. Ma è troppo debole ancora. È tropo subalterna al mercato, agli interessi dei grandi gruppi finanziari o industriali. Non esiste un giornalismo di idee e libero. Cioè non esiste il giornalismo che serve alla modernità e ai diritti.