e il centrodestra si spacca è salutare: «Storicamente il centro e la destra sono sempre state due cose distinte, che si sono affermate combattendosi furiosamente». E’ la valutazione di Marco Follini a Il Dubbio. «Berlusconi li ha uniti? Ma lui era un’anomalia, l’eccezione che conferma la regola. Non può essere la pancia a stabilire l’identità politica. Tra chi vuole gli immigrati presi a cannonate e chi si riconosce nelle parole del Papa, c’è un abisso. La differenziazione vige in tutta Europa».Un’idea abbastanza precisa su quale sia il morbo oscuro che sta corrodendo dall’interno l’Italia Marco Follini, ex leader Udc nonché vicepresidente del Consiglio, ce l’ha: «E’ la divisione. Tra avversari ma anche tra simili. Siamo diventati un Paese incapace di stringere legami. Un Paese che in questa fase predilige erigere muri piuttosto che costruire ponti».E cos’è che ha prodotto questa disgregazione?«La storia italiana è fatta di alternanza tra momenti di coesione e momenti di frattura; tra gioco di squadra e litigiosità insanabile. E’ questo il vero bipolarismo tricolore. Un fenomeno sul quale interrogarci non con l’ansia del contingente ma con lo sguardo lungo della progettualità».Più concretamente?«Il problema dei problemi è la mancanza di fiducia. Gli italiani oggi sono pervasi dalla diffidenza. Che è un male antico e che ha a che fare anche, seppur non solamente, con l’appropriazione che i partiti hanno fatto dello Stato. O noi poniamo in essere politiche che rafforzano i legami e puntano a progressivamente rialzare l’indice di fiducia oppure rischiamo di finire in un Paese atomizzato, dove trionfa il particulare».Proposte?«Recuperare il valore dell’associazionismo. Vedo che oggi va di moda dare addosso ai corpi intermedi: rappresentanze, sindacati, appunto associazioni, in una parola tutto quello che induce la gente ad uscire di casa ed a instaurare un legame con altri sulla base di un principio di affinità. Mi è chiaro che la gran parte di queste associazioni sono diventate burocrazie autoreferenziali, vissute come parassitarie da una fetta maggioritaria dell’opinione pubblica, e che è necessario soffi un forte vento di rinnovamento. Ma il principio va salvaguardato: che si recuperi la spinta a stare insieme, a condividere valori e battaglie sulla base di affinità che hanno radici importanti».Scusi, ma questa spinta da dove dovrebbe partire? Chi la deve incarnare e guidare? La politica? Quel che rimane delle forze sociali? O la fantomatica società civile?«La crisi dell’Italia è la crisi della cittadinanza. Anche ammesso e non concesso che la crisi abbia radici all’interno della politica, la difficoltà si è poi irradiata ed ha contagiato l’estrema periferia della cittadinanza. Se c’è, come c’è, la necessità di farsi un’esame di coscienza non può essere solo la politica a farlo. La politica è sempre una interpretazione della realtà, dietro di sè ha sempre un’idea del Paese che preferisce. Dietro ognuna delle forze oggi in campo, si può intravedere una idea di Paese».E dunque il bipolarismo attuale è nella lotta tra forze antisistema e quelle che lo difendono. Giusto?«Sì, è così. Le forze antisistema vivono sulla diffidenza e dunque la alimentano. La domanda è: quelle che si oppongono a questa deriva sono capaci di costruire un sistema che reintroduce la fiducia? Il punto dolente, a mio avviso, è che se le forze pro sistema finiscono per alimentarsi degli stessi argomenti, solo appena attenuati, di quelle anti-sistema, finiranno inevitabilmente per soccombere».Cerchiamo di fare nomi e cognomi. Le forze anti sistema sono i Cinquestelle, la Lega di Salvini, Fdi e il fronte lepenista. Che possono vincere la loro battaglia.«Sono forze che dicono una verità. Che io giudico profondamente sbagliata. Quel che davvero temo però è che dall’altra parte non ci sia altrettanta verità. Che in quella metà campo viga il principio di Bartali “è tutto sbagliato, tutto da rifare” e che dunque prevalga la convinzione che la vittoria si costruisce demolendo tutto ciò che c’è alle spalle, spezzando ogni legame con la storia. Io penso esattamente il contrario. Che il problema di questo Paese è soprattutto recuperare il rapporto con la sua storia perché è lì che sta la sua identità».Sta parlando di Renzi? E’ lui che sta tagliando i legami con la storia del Paese?«E’ a lui e al Pd che mi rivolgo. E’ a loro che dico: attenzione, se lo scontro diventa tra un populismo istituzionale, di governo, e uno della stessa stoffa più duro e puro, inevitabilmente vincerà il secondo. Diventa solo una questione di tempo. Mentre io credo che chi ha l’ambizione di governare il Paese, e quindi di unirlo lavorando per accorciare le distanze che lo attraversano, deve prioritariamente ridurre la distanza tra sè e la propria storia. E non far finta che siamo all’anno zero».Ma se è proprio sulla parola d’ordine della rottamazione che Renzi, come si dice, ha costruito la sua narrazione e, scusi, anche il suo successo. E allora?«Allora insisto: il nostro problema è recuperare il filo che ci lega alla nostra identità più profonda. Di capire, al netto del malumore e dell’esasperazione che contraddistingue questa fase recente, di che pasta è fatta la società italiana. L’Italia è storicamente un misto di inquietudine e di conformismo. Contingentemente, la parola d’ordine della rottamazione può far gioco. Ma il problema è operare al contrario: dare un senso di prospettiva, non seguire un percorso improvvisato».Lei invoca la necessità di ritrovare un filo comune, di appartenenza. Ebbene se c’è un campo, che lei conosce assai bene, in cui tutto questo è saltato è il centrodestra. Il problema è solo l’eterna leadership di Berlusconi, sempre in declino ma mai davvero superata, o c’ anche altro? E cosa?«Vede, io sono cattolico e perciò credo nel peccato originale. Dunque bisogna sempre risalire alle origini dei problemi. La difficoltà del centrodestra origina dal termine stesso. Centro e destra, nella storia italiana, sono sempre state due cose distinte, che si sono affermate, l’uno e l’altra, combattendosi furiosamente. L’illusione del bipolarismo ha messo insieme due parole d’ordine che non a caso non solo in Italia ma neanche in Europa riescono a stare insieme. In Francia, tra le Le Pen ed il mondo che fu gollista, c’è un antagonismo feroce. In Germania, la Merkel combatte la gran parte delle sue battaglie politiche e civili sul fronte dell’opposizione a Alternative fur Deutchland. In Austria a nessun Popolare con un po’ di sale in zucca sarebbe venuto in mente di proporre un’alleanza con gli energumeni che stanno vincendo. A nessuno sfugge la logica el pallottoliere elettorale, ma si possono sommare solo valori almeno minimamente compatibili. E tra chi pensa che gli immigrati debbano essere presi a cannonate e chi si riconosce nelle parole del Papa, c’è un abisso politico e civile che nessuna geometria politica consente di superare. Aggiungo: per fortuna. Il centrodestra come idea politica non c’è più. Ci sono due identità al suo interno che non riescono più a convivere».Dunque per lei è una rottura salutare quella che si sta consumando tra il duo Salvini-Meloni da un lato e FI dall’altro?«Certamente. Quando è la pancia a guidare il sentimento della tua identità, non c’è convenienza elettorale che tenga».Però Berlusconi c’è riuscito. E molti cercano un successore per rimettere insieme i cocci.«Per me è un esercizio fuorviante. Berlusconi è stato un’anomalia; l’eccezione, non la regola. Bisogna tornare alla regola. Se le identità sbiadiscono a furia di convivere con vicini di casa che la pensano in maniera opposta, è bene dividersi. Vale per il centrodestra, ma anche per il Pd. Vale anche per Renzi che non riesce a convivere con la sua sinistra. Lo dico amichevolmente a Matteo: recuperare una siffatta visione delle cose è salutare. Capisco che per arrivare al governo sia stata utile la scorciatoia della rottamazione. Io stesso mi sono chiamato fuori prima del tempo perché sentivo che questo era il clima. Ma una folata di vento non può diventare un terremoto. Non può sostituirsi ad un progetto e all’identità di un Paese. Forse è utile chiudere questa epoca di finzione in virtù della quale tutti pensiamo di essere nati ieri, sotto un cavolfiore»